Volente o no, l’attuale crisi del debito europeo sta sortendo un effetto collaterale che potrebbe mutare il volto dei rapporti di forza all’interno del mondo economico-finanziario: la rivincita della politica. L’idea stessa di un’unione fiscale europea, di un ufficio centrale per la gestione del debito e la possibilità di emettere debito a lungo termine sono temi attuali, discussi: fino a tre mesi fa erano una pura chimera nella testa di qualche socialista francese.
Per Gary Jenkins della Evolution Securities «se i rendimenti dei bond continueranno a salire in questo modo, sarà inevitabile la nascita de facto di un’unione fiscale con un ufficio centrale di gestione del debito e un governo europeo delle obbligazioni, all’inizio sotto gli auspici del Fondo di stabilità finanziaria». L’alternativa è un caotico avvicinamento a una situazione ingestibile per le casse della Bce, visto che dopo il Portogallo toccherà alla Spagna mettersi in coda per una salvataggio e, subito dopo, forse all’Italia stessa: a quel punto i costi saliranno rapidamente ed esponenzialmente e l’euro finirà sotto pesantissima pressione.
E all’interno di questo quadro si va a inserire anche la situazione bancaria. Se l’euro finirà nella spirale della possibile disintegrazione, il sistema bancario europeo potrebbe affrontare un taglio sul debito del 30%. Il combinato di banche tedesche, francesi e britanniche presenta un’esposizione verso il debito periferico pari a 1200 miliardi di euro, con gli istituti del Regno Unito esposti solo verso il debito irlandese per 139 miliardi di sterline. Stando a una simulazione di worst-case-scenario fatta da Evolution, se l’euro collassasse la perdita automatica che subiranno le banche sarà di 400 miliardi di euro: «E questa sarebbe una perdita finale, definitiva, non un giochino basato sul mark-to-market».
Sempre per il report di Evolution, il punto di rottura che obbligherebbe la Germania a ragionare fattivamente su un’ipotesi di unione fiscale – o di abbandono dell’Ue per l’opzione del doppelmark – è un rendimento dei bond spagnoli tra il 6% e l’8%: attualmente il decennale paga un 5,46%, un incremento di 144 punti base in tre mesi. E questo sarebbe devastante per il Belgio, le cui banche sono le più esposte in Spagna insieme a Barclays: detto fatto, anche Bruxelles finirebbe in coda per un aiuto dall’Ue.
Insomma, serve la politica e servono scelte rapide e decise. Quest’anno ce lo ha dimostrato. Basti vedere la reazione dei mercati all’annuncio di una seconda ondata di quantitative easing da parte della Fed, il picco dei rendimenti dei periferici dopo le parole di Angela Merkel o il loro raffreddamento dopo quelle di Jean-Claude Trichet riguardo l’acquisto di obbligazioni da parte della Bce.
Nel 2011 vedremo molti altri esempi di questo meccanismo azione-reazione tra politica e finanza-economia, questo anche perché saranno molte le domande chiave che cercheranno una risoluzione e saranno i banchieri centrali, non gli investitori a doverle fornire: l’euro resterà intatto come valuta comune? La Cina permetterà allo yuan di apprezzarsi? Le Fed stamperà altra moneta? E il Giappone, come reagirà alla crisi, con altri blitz sui tassi e acquisti di valute estere per calmierare lo yen?
Per Guy Monson, capo del comitato d’investimento della banca privata svizzera Sarasin, «i manager d’investimento avranno bisogno di diventare astuti analisti politici, visto che i governi guidano in maniera sempre maggiore l’agenda dei mercati finanziari». E, badate bene, queste domande che appaiono remote per i singoli investitori e cittadini, hanno invece implicazioni dirette nella nostra vita.
Chi detenga qualche azione di un grande catena di distribuzione può apparire disinteressato all’andamento dei tassi d’interesse in Cina o alle scelte del fondo di stabilità, ma in un mondo globalizzato tutto è interconnesso direttamente: globalizzazione significa che l’inflazione salariale in Cina comporta l’aumento dei prezzi nella catene di abbigliamento low cost europee e che una politica di denaro artificiale da parte della Fed fa alzare il prezzo delle commmodities, mantenendo alta la nostra inflazione e bassi i tassi di interesse reali sui nostri risparmi.
I travagli dell’eurozona, poi, incidono sul mercato dei bond e questi ultimi fissano il prezzo pressoché di tutto. Sono cinque le domande a cui la politica dovrà dare una risposta nei prossimi mesi, i temi chiave del 2011.
1) Sopravviverà l’euro? «Le unioni valutarie sono essenzialmente progetti politici», stando al giudizio di Alan Brown, capo investimenti alla Schroders, quindi la risposta al dilemma deve giungere da palazzi istituzionali e non da grattacieli sedi di hedge funds. I costi di un crollo dell’euro sarebbero vasti, ma quelli per preservarlo nell’attuale stato non sarebbero da meno: se poi il debito spagnolo finirà sotto ulteriore pressione, i regolatori dovranno decidere di agire sui fondamentali e non passare da un salvataggio all’altro.
2) I mercati sviluppati torneranno in recessione? L’argomento qui si basa sul fatto che i tassi di interesse non possono scendere più di così, il sistema bancario è fragile e il cosiddetto rebuilding finito: non c’è più benzina nel serbatoio delle vie d’uscita. Per ora le aziende sono ancora provviste di cash e i consumatori hanno ancora denaro da spendere: ma per quanto ancora? E a quali condizioni?
3) I mercati emergenti andranno in ebollizione? Qualcuno pensa che lo siano già, con inflazione crescente e banche centrali che cercano di svalutare le valute per preservare la competitività. C’è da sperare che la crisi asiatica del 1998 abbia insegnato qualcosa ai regolatori.
4) Il mercato azionario tornerà a perdere? «Attualmente le azioni appaiono attrattive rispetto ai bond, ma questa è solo la conseguenza della sopravvalutazione delle obbligazioni», risponde a ilsussidiario.net Tim Drayson, capo economista alla Legal&General. In aggregato, le compagnie stanno generando profitti forti e son ben fornite di cash, ma le azioni sono assets rischiosi e vulnerabili ai cambi d’umore del mercato.
5) Gli Usa hanno una exit strategy? Le autorità statunitensi hanno applicato finora l’equivalente fiscale e monetario di un defibrillatore per i comatosi consumatori Usa. Ma ora? Sia nel Regno Unito che nella maggior parte dei paesi dell’eurozona sono in atto politiche di austerity, mentre gli Stati Uniti non hanno un piano valido per tagliare le loro finanze e con il Congresso spaccato dopo le elezioni di mid-term, assemblarne e approvarne uno sarà arduo. Forse ora questa situazione non appare pericolosa, ma tra poco lo sarà.
L’anno prossimo sarà fondamentale per tutti noi e per gli equilibri stessi del sistema globale: e tocca alla politica riprendersi il primato che le compete in situazioni simili. Voi siete ottimisti al riguardo?
P.S. Avviso agli indignati speciali e ai difensori a orologeria della libertà e pluralità dell’informazione. Nel silenzio più totale dei media, infatti, domani la Commissione europea darà via libera alla mega-opa lanciata da News Corporation, la corazzata di Rupert Murdoch, alla maggioranza di Sky News: per l’organismo europeo, infatti, non esisterebbero problemi legati alla competitività. Insomma, avere la maggioranza di Sky News (61%), essere proprietario solo nel Regno Unito del Times, del Sun, di News of the World e di Fox News negli Usa non rappresenta una concentrazione di potere mediatico, questo anche se uno stesso editore controlla Sky Uk, Sky Germania e Sky Italia: la sua non è una posizione dominante.
E per chi è pronto a rispondere dicendo che Rupert Murdoch non è premier di un paese in cui opera la sua azienda, rispondo che non ne ha bisogno: i fiancheggiatori politici vanno da lui con il cappello in mano preventivamente; chiedere referenze a David Cameron che prima del voto, per garantirsi l’endorsement del gruppo News Corp, ha promesso al tyconn australiano via libera all’opa e due leggi spacca-Bbc. Ma si sa, il problema mondiale della pluralità d’informazione sono Emilio Fede e Studio Aperto con i suoi servizi sulle nuove mode per le vacanze sulla neve o sui canili-lager: l’ipocrisia, si sa, è una malapianta.