Auguri. La Cina li ha fatti a modo suo, proprio il giorno di Natale, sottoforma di un nuovo aumento dei tassi. Per la seconda volta in due mesi, la banca centrale ha stretto i cordoni della Borsa, dopo aver lasciato invariato il costo del denaro per tre anni.

È una buona notizia, se collegata al buonumore che, da qualche settimana, si respira negli Stati Uniti, a proposito della ripresa economica. Per la prima volta da quando, nel giugno del 2009, è ufficialmente finita la recessione, si diffonde dalle università a Wall Street la sensazione che la crisi, stavolta, possa essere davvero alle spalle.



Certo, la disoccupazione è ancora alta mentre gli effetti della bolla immobiliare sono tutt’altro che esauriti, cosa che induce il Financial Times a schierarsi dalla parte dei pessimisti. Ma, al contrario, si rivedono dati positivi sul fronte della produzione e dei consumi, in risalita da tre mesi al ritmo del 7% su base annua. È un fenomeno, almeno per ora, sotto controllo: la Fed ha calibrato i suoi interventi per stimolare la ripresa frenata dei consumi, senza però compromettere la ripresa della propensione ai risparmi.



Prima della crisi la famiglia Usa non risparmiava nulla, anzi si indebitava; nel 2010 il tasso di risparmio è pari al 6% sul reddito disponibile. Forse troppo per sostenere l’economia, così che gli ultimi interventi mirano a ridurre il tasso al 4%, per la gioia delle Corporations che non sono mai state così liquide, dopo anni di frenata degli investimenti.

Un mix di fattori che ha spinto le grandi case, da Goldman Sachs a Morgan Stanley, a rivedere al rialzo le stime di crescita, che oggi oscillano tra il 3,5% e il 4,5%. Intanto Wall Street, che per Jim O’Neill di Goldman Sachs sarà la vera occasione per il 2012 (con rialzi medi nell’ordine del 20%) sta per chiudere l’anno in bellezza, per la gioia dei fondi pensione americani.



Una ripresa che, tra l’altro, ha convinto Pechino che è arrivato il momento di metter ordine in casa propria. La prospettiva di una ripresa degli acquisti da parte dell’economia americana, infatti, è la molla che ha spinto la banca centrale cinese a muoversi per raffreddare, grazie all’aumento dei tassi, la domanda interna nel tentativo di domare le spinte sui prezzi, soprattutto quelli degli alimentari, che rischiano di provocare fermenti di protesta tra i lavoratori. Ma tutto lascia pensare che Pechino potrà vincere la battaglia del “cavolo”.

Già, perché buona parte del rincaro dei cibi proviene dal boom del prezzo del pet-sai, il sano vecchio cavolo che è l’ingrediente base della cucina cinese del Nord. Facile pensare che il Drago saprà rimediare alla penuria di cavoli e vincere la guerra contro l’inflazione, soprattutto se ripartirà la domanda internazionale compensata in questi anni da enormi investimenti (spesso improduttivi) all’interno.

 

Insomma, il “pacchetto” di stimoli fiscali e monetari decisi dall’amministrazione Obama, in accordo con i repubblicani del Congresso, ha avuto una risposta immediata sull’altra riva del Pacifico. A dimostrazione che, al di là delle frizioni anche violente che ci aspettano nei mesi a venire (il nodo del cambio yuan/dollaro, innanzitutto), l’economia mondiale non è allo sbando, ma risponde a determinate regole. E, quel che spesso tendiamo a dimenticare sotto i cieli di casa nostra, non è messa poi così male.

 

Questo vale per l’Asia, come per l’America Latina, a partire dal Cile trainato dall’aumento dei prezzi del rame, ma anche dal Brasile. O per l’Africa, a i vertici delle classifiche mondiali per crescita del Pil, con una nota di merito per il Ghana, ormai importante produttore di petrolio, piuttosto che per la Russia o l’area dell’Opec, Medio Oriente in testa. E di buona salute gode l’Australia, così come il Canada piuttosto che l’Europa Orientale, con l’eccezione dell’Ungheria. Per non parlare del miracolo turco o del buon stato di salute della Svezia.

 

Insomma, il mondo è in buone condizioni, salvo un’eccezione: l’Europa continentale più il Regno Unito e l’Irlanda. Ma non tutta l’Europa, visto lo stato di salute della formidabile macchina da export tedesca. Inutile farsi illusioni: il 2011, per l’Europa meridionale, Italia compresa, sarà un nuovo anno da vivere pericolosamente, in mezzo a tensioni sociali e sacrifici di varia entità.

 

Ci può consolare la prospettiva di esser malati in un mondo che gode di buona salute. Questo consentirà all’export di una potenza manifatturiera, quale l’Italia certamente è, di evitare la recessione. O ad aree a forte rischio, come il Portogallo o la Grecia, di poter disporre dell’aiuto (senz’altro interessato) di Pechino, pronta ad acquistare vagonate di titoli di Stato in euro pur di evitare problemi ulteriori a un suo grande cliente.

 

Ma, d’altro canto, il malato Europa è il bersaglio ideale, se non l’unico, della grande speculazione, contro cui valgono poco le difese approntate dagli Stati o dalla stessa Ue, se non accompagnate dalla saggezza di una visione lungimirante. La realtà, come dimostra l’esempio americano, può essere meno brutta di quanto non appaia a prima vista se si applicano le terapie giuste.

Nel caso americano, la causa prima della crisi stava nell’indebitamento delle famiglie che sostenevano a suon di cambiali, mutui e carte di credito un’economia fragile. Oggi, una volta avviata la terapia del risparmio, la congiuntura sembra avviata nella giusta direzione. Certo, l’emergenza resta, viste le dimensioni assunte dal debito pubblico, ma probabilmente si è evitato il rischio di dover ricorrere a un gigantesco taglio chirurgico di crediti e debiti.

 

L’Europa, al contrario, oggi paga il prezzo di uno sbilancio strutturale tra quanto incassano e quanto spendono i singoli Paesi. La soluzione non può che essere quella di tentare di raddrizzare i conti. Come, del resto, sta facendo la Grecia che in questi mesi ha riformato in profondità la previdenza e la sanità. O la Francia che, in mezzo alle contestazioni, ha rivisto la struttura delle pensioni. O il Regno Unito piuttosto che la tanto bistrattata Italia, che è l’unico tra i grandi Paesi dell’Ocse a chiudere il 2010 con un avanzo del fabbisogno primario.

 

Sarà un anno difficile per tutti, ma la direzione di marcia sembra quella giusta: è l’opinione di due economisti di JP Morgan, Lupton e Mackie, che stimano come, proseguendo nell’attuale linea politica, i Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) potrebbero nel medio termine recuperare un rapporto debito/Pil inferiore all’attuale. Purché, naturalmente, si stabilizzino i tassi sul debito. Cosa possibile, naturalmente, solo se la Germania accetterà di farsi garante di parte dei debiti, vuoi tramite la formula degli eurobond, vuoi, cosa meno efficace ma politicamente più facile, allargando sistematicamente la coperta dei finanziamenti ai paesi in difficoltà.

 

Speriamo che il 2011 porti saggezza tra i politici e gli elettori europei. Altrimenti, non ci resta che sperare nei cinesi per un aiuto che, prima o poi, ci costerà molto caro. 

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