Nel dibattito oggi molto acceso su come agganciare la ripresa mantenendo nel contempo sotto controllo il bilancio pubblico, i presunti gap di competitività tra noi e gli altri Paesi industrializzati sono spesso fatti risalire alla dimensione della nostra struttura produttiva, che sarebbe troppo piccola e comunque inadeguata, incapace di reggere la concorrenza globale.
L’Italia, si sa, è il paese della piccola impresa (il 95% del totale delle imprese ha meno di 10 addetti) e il presupposto teorico per chi fa risalire la causa di tutti i nostri guai alla dimensione troppo ridotta delle imprese è ovviamente che al crescere della dimensione si riescono a realizzare performance migliori e si raggiunge una maggiore redditività.
Ma è proprio così? In effetti qualche dubbio dovrebbe esserci, perché secondo i dati di una autorevole ricerca presentata questa settimana la validità empirica di questo assunto sembra essere piuttosto discutibile. E se il dato reale ha ancora un valore (cosa che molti economisti nostrani faticano a concepire), allora qualche riflessione bisognerà pur trarla. Ma andiamo per ordine.
Da molti anni ormai le analisi condotte con metodo e rigore da Mediobanca e Unioncamere sul sistema produttivo italiano ci hanno insegnato a guardare con grande attenzione all’articolato e variegato insieme costituito dalle cosiddette medie imprese, ovvero le società di capitali a controllo autonomo con un fatturato complessivo tra 13 e 290 milioni di euro e una forza lavoro tra 50 e 499 dipendenti.
Si tratta di quell’ormai famoso quarto capitalismo fatto di imprese di media dimensione in grado di coniugare il tradizionale legame con il territorio della nostra imprenditorialità con la capacità di competere efficacemente in uno scenario sempre più globale. A queste analisi focalizzate sull’Italia (la cui prima realizzazione risale 1998 e l’ultima allo scorso mese di marzo 2010), si è aggiunta quest’anno, in partnership con Confindustria, una prima versione internazionale della ricerca avente lo scopo di studiare e confrontare tra loro le medie imprese di vari paesi europei.
La ricerca presentata il 30 novembre scorso (Prima Indagine Confindustria-R&S Mediobanca-Uniocamere sulle Medie Imprese) ha cominciato con l’estendere l’analisi alle medie imprese tedesche e spagnole, presentando anche un quadro di confronto con la situazione degli analoghi soggetti del nostro Paese. Sebbene l’indagine faccia riferimento a dati del 2006, un periodo che la crisi fa oggi apparire lontanissimo, e soffra anche di qualche disomogeneità (ad esempio, per l’Italia i risultati derivano dall’insieme di tutte le medie imprese, mentre per la Spagna e la Germania ci si è basati su indagini campionarie variamente rappresentative dell’universo di riferimento), tuttavia molti dei risultati emersi destano un particolare interesse, anche per la sostanziale originalità di un’analisi di questa ampiezza e profondità.
La ricerca mostra, in via di sintesi, come la media dimensione rappresenti in tutti e tre i Paesi una fascia di grande efficienza della manifattura. In via specifica, oltre ad alcune conferme, come la potenza tecnologica della Germania (con la fascia alta e medio-alta della tecnologia che rappresenta il 43% circa del fatturato delle medie imprese tedesche e solo il 30% di quelle italiane e il 27% di quelle spagnole), o come il fatto che le imprese italiane, in questo caso di media dimensione, sono tra le più tartassate d’Europa quanto a prelievo fiscale (con un tax rate al 48% contro il 25% circa di Spagna e Germania), dall’analisi emergono anche elementi di novità, almeno parzialmente inattesi.
Tra questi ultimi, in particolare, sono da segnalare le relazioni tra dimensione d’impresa e performance, da un lato, e tra dimensione e redditività dall’altro. Ebbene entrambe queste relazioni – che dovrebbero essere positive secondo i detrattori della piccola impresa sopra menzionati – risultano invece clamorosamente negative sulla base dei dati utilizzati nell’indagine Confindustria R&S-Unioncamere.
Come sono stati ottenuti questi risultati sorprendenti? I ricercatori di R&S hanno dapprima suddiviso le medie imprese in tre gruppi relativi a dimensioni crescenti di addetti (50-99, 100-249, 250-499) e hanno poi mostrato come sia il valore aggiunto netto per occupato (che è una tipica misura di efficienza di performance), sia il margine operativo netto sul valore aggiunto e la redditività del capitale investito (due misure classiche di redditività) decrescono man mano che si passa dalla prima classe (50-99 addetti) alla seconda (100-249) e alla terza (250-499). E questo risultato è stato ottenuto sia in riferimento alle imprese italiane sia a quelle spagnole sia a quelle tedesche, il che dimostra come si tratti di una conclusione particolarmente robusta e significativa.
Cosa dedurre da questi risultati? Non è certamente il caso di concludere che la struttura produttiva italiana è ottimale. Sono a tutti note le difficoltà che incontrano le nostre piccole imprese a conquistare nuovi mercati, a fare formazione, a fare ricerca e sviluppo, ecc. Si tratta di problemi che obbligano a considerare fondamentale per la nostra competitività lo sviluppo di una classe di medie imprese in grado di meglio affrontare le difficoltà e i costi dell’innovazione e dell’internazionalizzazione. Cosa che in effetti sta avvenendo.
Risultati così al di fuori delle attese ci portano però anche a concludere che probabilmente il nostro sistema produttivo non ha ancora scoperto il modo migliore per affrontare le sfide della complessità poste dall’epoca della globalizzazione (o della post-globalizzazione). In altri termini: date le condizioni di partenza delle nostre imprese, quale potrebbe essere il giusto mix di piccola, media e grande impresa capace di sostenere in modo ottimale una sfida competitiva complessa, a volte brutale, e in rapido divenire?
Finché questi quesiti non troveranno risposta, possiamo soltanto limitarci a far presente a tutti coloro che incessantemente (e spesso fuori luogo) criticano i nostri piccoli imprenditori che se c’è un Paese che, da almeno tre decenni, ha costruito la sua ricchezza sulla piccola attività imprenditoriale, questo è senz’altro l’Italia. E che invece di criticare chi comunque produce, lavora e dà lavoro, potrebbero più utilmente esercitarsi a ricordare come a essere oggi indispensabili sono quelle riforme che nessun governo, di qualunque colore, sinora è riuscito a fare: la riforma fiscale, con l’introduzione di sgravi fiscali per le aziende e i lavoratori e una lotta più serrata all’evasione fiscale (in un Paese in cui meno dell’1% dei contribuenti dichiara redditi superiori ai centomila euro); la riforma della Pubblica Amministrazione, con l’ormai non più rinviabile riqualificazione della spesa pubblica; la riforma energetica, con la diversificazione delle fonti e il ritorno al nucleare.
Sono questi i fatti concreti che possono consentire alla nostra impresa diffusa di tornare alla crescita. Senza scordarsi che, durante la crisi, sono stati i piccoli imprenditori a garantire la tenuta del Paese mettendo a disposizione il loro patrimonio fatto di responsabilità, competenze e orientamento alla coesione sociale.