Quanto vale la scommessa Marchionne per l’industria italiana? In senso stretto, si può rispondere: venti miliardi di euro, tanti quanto sono gli investimenti promessi dal numero uno di Fiat. Ma la risposta è riduttiva. Non solo perché la cifra, se si tiene conto dell’indotto, va moltiplicata almeno per due volte e mezzo. Ma soprattutto perché, senza quell’investimento, la presenza delle quattro ruote Fiat nel Belpaese sarebbe destinata a ridursi a una quota poco più che simbolica, con effetti devastanti per l’indotto della meccanica e dell’elettronica.
Basti dire che per ogni 100 euro fatturati dalla Fiat se ne producono almeno altri 250 per l’indotto. Ogni posto di lavoro nell’industria dell’auto traina con sé, in media, altri sette occupati nei settori più disparati: componentistica, ma anche reti di vendita, addetti alle infrastrutture, centri di ricerca e investimenti nell’istruzione universitaria fino agli addetti alle pulizie e, non ultimo, il settore pubblicità.
I 9 miliardi di fatturato del Lingotto, insomma, ne generano altri 22 e mezzo. Senza dimenticare l’effetto traino sull’export a vantaggio del resto del made in Italy, robot, siderurgia, impiantistica e così via che si muove al seguito della multinazionale. Un indotto ormai adulto, che fattura metà dei suoi ricavi (oltre 40 miliardi di euro) con clienti diversi da Fiat, ma che avrebbe difficoltà, salvo esempi eccellenti (vedi Brembo) a investire e crescere se non ci fosse un grande campione nazionale.
Insomma, è realistica, la stima avanzata da Il Sole 24 Ore: l’impatto della Fiat sul giro d’affari del sistema auto italiano è attorno ai 51-52 miliardi. Cifra che sale naturalmente se si considera l’impatto sul terziario, dalle società di consulenza al marketing. O sulla dinamica dei consumi, degli investimenti dei lavoratori (vedi la casa) e così via. Possiamo azzardare una cifra moltiplicata per due, il 5% del Pil o giù di lì.
Basta questa considerazione a spiegare perché è così importante trattenere l’investimento Fiat in Italia. In una situazione economica del tutto diversa da quella in cui sono maturati gli accordi capitale-lavoro del passato. Fino a ieri, Stato e industria dell’auto, non solo in Italia, erano legate da un vero e proprio cordone ombelicale, motivato dall’importanza, insostituibile, dell’auto come motore della crescita interna.
I big delle quattro ruote sono riusciti, in passato, a dettare la propria legge ai governi che hanno sostenuto in vario modo le industrie nazionali. Ora non è più possibile, vista la situazione del bilancio pubblico. Ma anche per la dinamica dei mercati. Oggi, nel mondo, gli impianti in attività sono sufficienti a coprire una produzione di oltre 90 milioni di veicoli l’anno contro un mercato che nel 2010 ne ha assorbiti poco meno di 70 milioni. Colpa della crisi? In realtà, si è trattato di un anno record, grazie al boom della Cina, dell’India e dell’America Latina, oltre alla ripresa negli Usa. La caduta della domanda ha riguardato la sola Europa occidentale, cioè il mercato più maturo.
Insomma, di auto se ne fanno troppe. E in prospettiva se ne faranno ancora di più. Perché i Paesi emergenti, esattamente come in passato americani ed europei, non hanno alcuna intenzione di rinunciare all’effetto traino dell’industria dell’auto. Per questo si moltiplicano intese e joint venture per produrre automobili in impianti nuovi, vicini ai mercati di sbocco più appetibili e nel rispetto delle regole del gioco delle tariffe.
Non è certo per odio nei confronti della Penisola, ad esempio, che la Fiat progetta il proprio sviluppo in Brasile, Russia o Polonia. Piuttosto che in Messico, cioè all’interno dell’area doganale Nafta (che comprende Usa e Canada) o in Serbia, Paese che gode di agevolazioni commerciali con la Russia. Vendere auto è diventato un mestiere molto difficile in cui nessun produttore, a partire dalla Fiat che è uno dei più deboli, può permettersi di fare sconti.
In questa cornice, dunque, l’Italia deve ritagliarsi una ragione industriale, al di là delle mozioni culturali, politiche o sentimentali, per far parte di una multinazionale che produce auto su scala mondiale. Una ragione che si giustifichi, in vista delle nozze con Chrysler, di fronte al mondo finanziario, politico e sindacale americano.
Vista da questa angolatura, Fabbrica Italia è molto di più di un progetto industriale o di un conflitto sindacale. È la cartina di tornasole per capire se la Penisola vuole avere un futuro industriale oppure no. Se vuole attrarre investimenti, poco importa se italiani o dall’estero, oppure se preferisce consumare la ricchezza ereditata dalle passate generazioni. Finché ce n’è.