Il rapporto Censis propone di vedere l’Italia come una società che non appare più in grado di rinnovare la propria ricchezza per mancanza di forza interiore. Poiché il gruppo di ricerca internazionale che coordino (Globis) studia da tempo la capacità delle nazioni di rinnovare continuamente e mantenere espansivo il ciclo del capitale, mi sento di poter correggere le valutazioni del Censis in un senso meno pessimistico. L’idea di un’Italia in declino antropologico, precursore di quello economico, non corrisponde alla realtà.
In generale, ogni sistema sociale arrivato alla condizione di ricchezza di massa mostra fenomeni che assomigliano all’impigrimento. Molta gente non vuole più fare lavori considerati troppo faticosi e con poco status. Infatti ciò apre una domanda di lavoro per immigrati disposti a farli in quanto partono da condizioni di povertà. Che molti figli di benestanti vogliano lavori di livello non è segno di pigrizia o di mancanza di ambizioni, ma di un desiderio che si è fatto selettivo. Quindi il problema, in tutte le società sviluppate, è che molti non trovano le occupazioni qualificate che cercano e non necessariamente un deterioramento dell’attivismo.
In Italia tale problema appare più grave perché il suo modello economico crea opportunità di lavoro qualificato molto inferiori alla domanda. Infatti l’Italia esporta cervelli più di altre nazioni comparabili. C’è anche un fenomeno di riduzione delle ambizioni, ma è “pansociale”. I figli dei benestanti abituati a una vita comoda la vogliono continuare rinunciando a più denaro, e rischi/fatica sul mercato per ottenerlo, allo scopo di avere più tranquillità. Questo fenomeno, visibile in tutte le società a ricchezza matura, anticipa un sistema che non sarà più in grado di rinnovare la ricchezza cumulata nel passato. Ma non tocca i figli dei meno abbienti, ancora carichi di voglia di riscatto. E appare comunque reversibile.
In sintesi, l’apparente perdita di attivismo della società italiana registrata dal Censis è in realtà un fenomeno generale di tutte le società a sviluppo maturo e che può essere modificato da cambiamenti nel modello economico. Il punto: mentre il Censis vede la crisi del sistema “in basso”, nella società, e la considera un male per lo più italiano, io propongo di vederla “in alto”, nel modello e nelle idee/politiche che lo determinano.
I miei ricercatori segnalano che nelle società ricche la partecipazione soddisfacente al processo capitalistico ormai richiede competenze che la maggior parte della gente non ha. L’economia tecnologica e della conoscenza si è sviluppata molto più velocemente della capacità del sistema educativo di formare adeguatamente gli individui. Tale gap è rilevabile in tanti dati: la gente che non capisce il nuovo sistema finanziario vi partecipa facendosi abbindolare o compiendo errori; tanti laureati convinti di sapere scoprono che per avere un valore di mercato dovrebbero conoscere immensamente di più; in generale, la gente non riesce a capire le parole che descrivono la nuova economia globale, la percepisce troppo complessa, e sente paura.
La paura poi provoca posizioni difensive che appaiono di minor attivismo. Ma non è declino del desiderio. Una nuova luce che desse loro fiducia e comprensione del mondo farebbe tornare ottimismo e attivismo. In conclusione, il problema e la soluzione non riguardano una malattia valoriale nella società e la ricerca di una cura altrettanto valoriale come suggerisce il Censis. Riguardano, invece, la conduzione politico/tecnica del sistema e la capacità di ridisegnarlo per dare più competenze di massa e più opportunità economiche.