Non è senza ironia che nel 1996 fosse proprio l’allora Primo ministro portoghese Antonio Guterres a paragonare l’euro al primo Papa: “Come San Pietro fu la roccia su cui il cristianesimo è stato costruito”, disse, “così la moneta unica sarà la roccia per l’Europa”.

Quando la nuova valuta stava per venire alla luce, il 31 dicembre 2001, il presidente della Commissione Europea Romani Prodi osservò che “la moneta non è solamente sostanza, è anche identità.” Un anno dopo aggiunse: “Il progetto di una moneta unica europea non è affatto economico. È un passo puramente politico. Lo storico significato dell’euro è di creare un’economia bipolare nel mondo. I due poli sono il dollaro e l’euro. Questo è il significato politico della moneta unica europea. È un passo cui altri seguiranno. L’euro è solo l’antipasto”.



A quanto pare, il pasto è stato bruscamente interrotto. L’euro viene “rigurgitato” da diversi Paesi europei periferici e potrebbe creare una grave indigestione nell’intera Eurozona. In Irlanda, l’ultimo punto caldo della crisi, si riscontra un crescente malessere verso il modo dispotico e sbrigativo in cui sono recentemente intervenuti Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale per estendere al Paese ciò che viene definito un “salvataggio”. Questo potrebbe rapidamente risvegliare l’euroscetticismo che provocò l’iniziale rifiuto di entrambi i trattati di Nizza e Lisbona, rispettivamente nel 2001 e nel 2008.



Cresce nel pubblico la coscienza che il pacchetto di intervento dell’Ue e del Fmi per l’Irlanda non è, a dispetto del titolo, un “salvataggio”, ma un’ipoteca di sessant’anni a tassi da usuraio progettata non per salvare l’Irlanda, ma per tamponare l’emorragia della moneta unica. Ed è un salvataggio delle banche straniere che hanno prestato alle nostre banche il denaro per creare in Irlanda una iperdemocrazia del debito. Questa manovra tratta l’Irlanda come un arteria tagliata, sulla quale è stato posto maldestramente un laccio emostatico di ripiego, nella speranza di salvare la rovinosa follia che è la moneta unica.



Per molti in Irlanda suona strano che l’attuale crisi abbia nuovamente ridotto il Paese a un’entità economica separata. Quando ci hanno convinti ad aderire all’Unione Monetaria Europea, uno dei punti chiave nel discorso di vendita era che la nuova valuta avrebbe reso il problema di uno il problema di tutti, nessun Paese sarebbe stato lasciato da solo o trattato in modo diverso dagli altri. Adesso, anche se sembra ovvio che i problemi dell’Irlanda sorgono da più vaste incoerenze dell’Eurozona, in questo momento di grave difficoltà siamo visti come un elemento puramente problematico, e perciò in qualche modo messo da parte.

Durante il periodo di boom c’è stato detto che la prosperità era dovuta ai benefici del partecipare all’Eurozona; invece, il periodo attuale di crisi sembra sia una conseguenza della nostra stupidità. Per gli ufficiali giudiziari del “salvataggio” siamo inadempienti e quindi dipendenti e sacrificabili, un Paese che non è più del tutto un Paese, o lo è solo per imporgli le orecchie d’asino.

Tuttavia, in un modo più strano, perverso, i peccati commessi dall’Irlanda o che le sono addossati possono ora ottenere ciò che gli elettori irlandesi non hanno ottenuto in quattro referendum nello scorso decennio, due sul Trattato di Nizza e due su quello di Lisbona. Due volte gli irlandesi hanno tentato di frenare l’avanzata dell’Unione Europea e per due volte sono stati invitati a essere ragionevoli e a votare in modo diverso, e lo hanno fatto. Ora invece si potrebbe raggiungere quel risultato, e definitivamente.

 

Nel giugno del 2001, quando gli irlandesi rifiutarono il Trattato di Nizza, era ormai troppo tardi per evitare ciò che adesso sta accadendo: l’euro era sui blocchi di partenza e noi vi avevamo aderito. In realtà, a quel tempo sembrava non esservi quasi nessun significativo rapporto tra la moneta e il Trattato e anche tra le attuali condizioni economiche e l’atteggiamento generale verso il progetto europeo. All’epoca della ratifica del Trattato di Lisbona nel 2008, l’opposizione era aumentata considerevolmente, nonostante il crollo economico non fosse ancora avvenuto.

 

La conclusione potrebbe essere messa in questi termini: all’inizio, quando l’Irlanda era povera, ma sovrana, eravamo “pro Europa”. Più diventavamo ricchi, apparentemente come conseguenza della crescente integrazione nell’Europa, più aumentavano i dubbi. Ora, insolventi e senza sovranità, dobbiamo cominciare a riconsiderare tutta la questione dall’inizio.

 

Il modo strano e lento in cui siamo scivolati in questa crisi da circa il settembre del 2008 ci ha condotto ad accettare certe analisi di dettaglio, con solo un’occhiata al quadro generale. Abbiamo accusato di avventatezza e incapacità, non senza qualche ragione, le banche, i singoli banchieri, i nostri politici. Abbiamo tentato confronti con l’ultima seria recessione negli anni ’80, che aveva cause del tutto differenti. Ci siamo concentrati sull’uso, o il cattivo uso, degli strumenti nazionali, quando avevamo ormai già ceduto la sola cosa che ci avrebbe potuto salvare, il controllo nazionale sui tassi di interesse.

 

Sotto la cacofonia della rabbia e della recriminazione che in questo momento contraddistingue i discorsi degli irlandesi si può scorgere un altro tema, il biasimo per avere “perso il governo di noi stessi”. Dalle nostre parti ci sono sufficienti colpevoli segreti per garantire una relativa passività degli irlandesi di fronte ai decenni promessi di austerità. Tuttavia, metteremo gradualmente insieme una nuova “storia” dei passati decenni e al cuore della storia vi sarà un cattivo che prima non avevamo individuato: l’euro.

 

Sei, sette, otto anni fa, ubriacati dall’idea di una trasformazione economica e culturale, abbiamo accettato pesanti cambiamenti nella nostra cultura e nella nostra vita pubblica come segno della promessa fioritura della convergenza europea. Abbiamo guardato queste strane monete e banconote nei nostri portafogli circa nello stesso modo in cui guardavamo i polacchi o i lettoni che ci servivano il cappuccino. Non abbiamo ben capito cosa era successo, ma non eravamo pronti a guardarci dentro.

 

In realtà, la nostra opposizione a Nizza e Lisbona è stata la reazione di un popolo infettato da una hubris generata proprio da quanto stavamo rigettando. Non si trattava di risposte ragionate, ma di reazioni istintive, magari ispirate dalla sensazione crescente che l’Irlanda non era più padrona del suo destino. Ma al contempo abbiamo accettato volentieri quelli che sembravano i benefici di ciò che stavamo combattendo.

Il vero danno è stato inflitto tra i trattati di Nizza e Lisbona. Per circa in decennio, dal 1999, i tassi di interesse, pilotati dalla Germania, hanno oscillato sotto il livello di inflazione irlandese: in un certo senso, era da stupidi non indebitarsi pesantemente. Avendo ceduto da tempo tutte le opportune leve fiscali e finanziarie, la prudenza della nazione finì per essere diretta dal pilota automatico, mentre ci persuadevamo, con una parte del nostro cervello, che eravamo stati molto intelligenti, tutto sommato, a inserirci in questa faccenda dell’euro. Con l’altra parte del nostro cervello, continuavamo invece a essere scettici, ma questo scetticismo non ha mai portato a nessuna iniziativa.

 

Per prepararci a questo massiccio cambiamento nella nostra cultura economica, abbiamo dovuto mettere in ordine la nostra casa. Vale a dire che abbiamo messo una parte del debito pubblico sotto il tappeto, trasferendolo alle ipoteche dei privati. Durante l’ultima crisi economica irlandese il tema principale era il debito pubblico, perché i criteri di Maastricht richiedevano che non eccedesse il 60% del Pil e che il deficit non superasse il 3%.

 

L’Irlanda si è messa in regola, più o meno, con questi parametri spostando il debito dal pubblico al privato, utilizzando imposte di registro sull’acquisto di immobili per ottenere entrate dalla bolla immobiliare. I cittadini continueranno quindi a pagare per anni sulle loro ipoteche i servizi prestati loro dallo Stato magari dieci o più anni fa.

 

Tutti questi fattori sono parte della storia che ci ha portato a questo momento, ma finora sono stati minimizzati, anche perché i nostri giornali e media si sono impegnati nell’applaudire l’Unione monetaria europea e la nostra parte in essa. Presto comincerà però a farsi strada la consapevolezza che il nostro destino non è stato deciso nel settembre del 2008, e neppure il primo gennaio del 2002, ma il 18 giugno del 1992, il giorno in cui abbiamo votato per il Trattato di Maastricht, che preparò il terreno per l’introduzione dell’euro.

 

I segni ci sono già. È infatti significativo vedere una nazione che per anni ha cercato di ripudiare il suo passato nazionalista, parlando invece del proprio ruolo in una più vasta Europa, tornare a discorsi dove nazionalità e sovranità hanno un valore sempre più forte. Le proteste contro le misure rigorose imposte all’Irlanda dalla crisi, ad esempio, sono avvenute fuori dal General Post Office, il principale luogo della Rivolta di Pasqua del 1916.

 

Questa improvvisa voglia del nostro passato nazionalista ricorda il modo in cui la gente tende a ricorrere alla religione, quando succedono brutte cose. Ma dubito che questo fosse quanto aveva in mente Antonio Guterres parlando di San Pietro e della moneta unica! 

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