Anche questa volta siamo arrivati troppo tardi. Negli ultimi mesi dello scorso anno un grande convegno organizzato in Veneto dalla più importante scuola di management locale celebrava per un’attenta platea di imprenditori i dettami della via giapponese alla produzione: la teoria del Kaizen, il miglioramento continuo, il total quality e via discorrendo, in poche parole Toyota.



Il maxi richiamo di vetture, qualche milione a livello mondiale, e il blocco delle vendite di otto modelli a causa di un problema meccanico legato al pedale dell’acceleratore, con la conseguente perdita in una settimana del 15 per cento del valore di borsa, pari a 25 miliardi di capitalizzazione, è storia di ieri.



Sia chiaro, guardarsi attorno, per un imprenditore, è un dovere soprattutto nel mondo globalizzato di oggi: aprirsi al confronto, apprendere per analogia, conoscere nuove modalità di azione per migliorarsi sono cose di straordinaria importanza e necessità. Pensare invece che le tecniche manageriali siano facilmente trasferibili da un contesto culturale all’altro o, ancora peggio, favorire la trasformazione di accorgimenti direzionali in mode e come tali sostenerne la diffusione, al pari di altri settori, a livello planetario è frutto di superficialità, interesse di parte o atteggiamento ideologico. Che, quando queste tecniche incorrono in gravi errori anche laddove sono nate, rasentano il ridicolo.



Già trent’anni fa con i circoli di qualità alcune società di consulenza, una in particolare, avevano sponsorizzato l’adozione nel nostro paese di questa modalità operativa che tanto successo aveva mietuto nella terra del Sol Levante. Alzi la mano chi ha lavorato in un’azienda privata che in Italia abbia sperimentato per più di qualche mese questo particolare modo di lavorare.

Sulla faccia della terra non siamo, per fortuna, tutti uguali: storia, tradizioni, limiti e abitudini, nel bene e nel male, caratterizzano ciascun popolo e lo fanno resistere al cambiamento in maniera direttamente proporzionale alla sua epocalità. Lo ha capito, è solo un esempio, anche Mc Donald’s che, dopo anni di tentativi sostanzialmente falliti ci sta proponendo Mc Italy. Non è né positivo, né negativo, è così.

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La responsabilità principale è certo di chi, consulenti, business school e anche, in alcuni casi, associazioni, dall’esterno delle aziende le vuole aiutare, non sempre in buona fede, a migliorarsi e, dunque, a cambiare. Forse sarebbe meglio, per lo stesso obiettivo, dedicare energie e risorse a conoscere dall’interno quelle imprese, almeno le migliori, per ricostruire attraverso la loro azione le caratteristiche del nostro modello originale di sviluppo.

 

A pochi chilometri dalla sede del convegno da cui siamo partiti opera la Selle Royal Spa, un’azienda che ha appena annunciato di avere acquisito il 52 per cento del leader cinese del settore di riferimento, quello delle selle da bicicletta. Con questa operazione l’azienda produrrà nel 2010 trenta milioni di pezzi, pari al 25 per cento della produzione mondiale, divenendone il leader. E il fratello dell’imprenditore con Selle Italia Spa produce altri due milioni di pezzi, per l’alto di gamma del settore. Chissà se Riccardo e Giuseppe Bigolin, da Rossano Veneto, erano al convegno? Probabilmente no.