Lo sceicco di Dubai, Mohammed bin Rashid Al Maktum, a differenza dei suoi “cugini” di Abu Dhabi non ha la fortuna di avere la propria tenda poggiata su riserve petrolifere inestimabili. Il suo è un emirato che presto non potrà più contare sui ricavi derivanti dalla vendita del petrolio. Questo destino era noto allo sceicco già dieci anni fa, quando per la prima volta visitò Hong Kong. In quell’occasione rimase stupito dall’incredibile dinamismo della città il cui nome significa “porto profumato”.
Chiese quindi ad alcuni consulenti quali erano le ragioni alla base dell’eccezionale vigore di Hong Kong e scoprì molte delle cause di tanta vitalità: libertà di movimento delle persone, libera circolazione dei capitali, fiscalità quasi inesistente, forte legalità e certezza del diritto.
Decise allora di importare questo modello e, avendo tutto da guadagnare e ormai nulla da perdere, diede vita a Dubai così come la conosciamo oggi. Lo sceicco “Mo” – come lo chiamano i suoi cittadini – creò dal nulla un vantaggio competitivo per l’emirato, che gli permise di attirare dal resto del Medio oriente le migliori menti e i capitali necessari per sostenerne la crescita.
Nel deserto nacque un’oasi unica nel suo genere che, nonostante le recenti turbolenze sul fronte finanziario e grazie soprattutto allo stile di vita che può offrire agli stranieri, continuerà ad attirare risorse negli anni a venire.
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Il Sud, Termini Imerese e dintorni
Benché non poggino su ricchi giacimenti petroliferi, alcune regioni italiane hanno ben altre ricchezze a propria disposizione: sono benedette da un’incredibile abbondanza e varietà di paesaggi, sono figlie di una storia millenaria e sono eredi di un lascito artistico unico al mondo.
Nonostante tutto ciò, la questione del Sud rimane irrisolta, permettendo ai più arrendevoli di affermare che il meridione d’Italia rimane una terra difficile, in mano alla criminalità e senza speranze. Lo si è visto, ancora una volta, con gli sviluppi relativi alla crisi dello stabilimento Fiat a Termini Imerese: alcuni addirittura recuperano una vecchia metafora tanto triste quanto significativa: senza un deciso cambio di rotta, al posto delle cattedrali nel deserto costruite negli ultimi quarant’anni, ci rimarrà soltanto la sabbia.
Ma costoro sbagliano, perché non esistono terre maledette o prive di futuro. Esistono solo uomini di cattiva e di buona volontà. E il Sud ha la fortuna di aver esportato tantissimi italiani illuminati che, non trovando “opportunità” in patria, le hanno cercate altrove. Ed è questa la chiave di lettura: gli uomini di buona volontà chiedono solo una cosa allo Stato: le opportunità per intraprendere.
Tutte le colpe dello Stato
Mutuando un discorso spesso fatto dagli economisti più liberali, si può affermare come lo Stato sia riuscito ad attutire e quasi annientare le forze produttive del nostro Sud. È il tema tanto spesso dibattuto su quanto sia facile utilizzare le risorse pubbliche per finanziare attività improduttive rispetto a iniziative ad alto potenziale. Un esempio lampante di tale questione è proprio il caso degli stabilimenti Fiat in Italia, in particolare di quello siciliano di Termini Imerese.
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Nel corso degli anni la Fiat è stata aiutata, finanziata e protetta dallo Stato. La miopia dell’intervento pubblico era quella di ritenere che il prodotto automobilistico rappresentasse non tanto – e forse giustamente – un gioiello dell’industria italiana, quanto una prospettiva perenne per la crescita economica futura.
Una prospettiva anche per quanto riguarda la preservazione dei posti di lavoro. Il problema è che tale presunzione ha traghettato i lavoratori – la vera risorsa del paese, di qualsiasi paese – in un limbo indefinito da cui ormai non sembra nemmeno più possibile uscire. O meglio, la via d’uscita porta sicuramente a un Inferno: il fallimento e la disoccupazione.
Non sono i lavoratori a essere poco competitivi e non è certamente colpa loro se la situazione sta degenerando. E non è colpa nemmeno dei manager attuali della Fiat, i quali ben sanno quali siano le opportunità di mantenere un investimento in Sicilia con le condizioni attuali.
Sicuramente, né i lavoratori né Marchionne possono semplicemente arroccarsi sulle loro posizioni: i primi, perché non è attraverso il mantenimento dello status-quo che possono garantire un futuro migliore ai propri figli, bensì tramite uno sforzo d’intraprendenza e un segnale di coraggio; il secondo, in qualità di rappresentante degli interessi Fiat, perché non può far finta di non aver ricevuto dallo Stato enormi sussidi in passato e deve ora mettere qualcosa sul tavolo – onde evitare che altri più lungimiranti, magari con gli occhi a mandorla, prendano il suo posto in Sicilia.
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Più mercato, meno clientele
È allora nello Stato che risiede la principale responsabilità nel proporre una via d’uscita che generi nuove opportunità per tutte le regioni del Sud d’Italia. E se Dubai ha guardato a Hong Kong per risolvere i suoi problemi, forse l’Italia può guardare all’esperienza dell’emirato arabo: la necessità rimane quella infatti di restituire vitalità alle risorse fondamentali del nostro Paese, ovvero i suoi lavoratori.
Innanzitutto è necessario che lo Stato faccia un passo indietro: non è dal governo che deve venire l’indicazione di quali siano le industrie chiave per il futuro industriale del paese, bensì dal mercato e dalla libera iniziativa di lavoratori e imprenditori.
La gestione pubblica si deve limitare al mantenimento della sicurezza, all’enforcement della legalità – ad esempio attraverso un’azione di “tolleranza zero” – e all’assicurazione della celerità del giudizio civile e penale. Il governo ha la responsabilità di porre le basi perché le potenzialità ancora inespresse della nostra gente possano sprigionarsi libere.
Ciò che infatti, alla radice, muove l’azione umana è la volontà di realizzare le proprie aspirazioni: se si eliminano i vincoli e i fardelli che impediscono all’uomo di intraprendere liberamente, le risorse produttive torneranno a generare valore per la nostra economia.
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Detassare, detassare
Certo è che non possiamo fare affidamento soltanto su noi stessi, che come sistema-paese siamo ormai fiacchi e quasi privi di forze. Bisogna attirare adeguate risorse per il rilancio, che per evitare di pesare ulteriormente sulle casse dello Stato devono necessariamente arrivare dal settore privato – e magari anche dall’estero.
E gli investimenti privati seguono strade preferenziali, come ha ben insegnato l’esperienza di Hong Kong prima e di Dubai poi: la proposta di offrire una tassazione di favore – e perché no, a fronte di zero-sussidi (quindi a costo zero), magari una completa detassazione – per chi investe e lavora in determinate aree del nostro Paese, è certamente uno degli strumenti che storicamente si è dimostrato più efficiente nell’attirare capitali e personale qualificato.
E insieme a questo, anche la certezza che la giustizia possa veramente garantire tutti i vari interessi tutelati dalla legge, a partire dalla proprietà privata messa a rischio ogni giorno dalla criminalità organizzata.
Ma tutto ciò non rappresenta certo uno specchio per le allodole: se, ad esempio, una riconversione di Termini Imerese fosse possibile a determinate condizioni – come, ad esempio, quelle appena accennate – il rimodellamento del sistema produttivo della regione genererebbe un richiamo per tutti quei giovani eccellenti meridionali ora all’estero (e quanti di loro stanno lavorando lontano da casa a Dubai per “metter via” un po’ dei soldi risparmiati con le tasse), che avrebbero così più di un incentivo per ritornare a casa e contribuire alla rivincita del Sud.