Dall’inizio del 2010 il valore di un credit default swap, ovvero l’assicurazione contro l’eventuale insolvenza, sul debito pubblico americano è salita del 34% circa. La media, in Europa, sale addirittura al 35%. Basti questo dato per capire che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’incertezza è tornata a regnare sovrana sulle piazze finanziarie internazionali.



A che si deve questo malessere? In parte alla sensazione di incertezza in arrivo dalle capitali politiche del pianeta. Non a caso, la febbre del Vecchio Continente è schizzata oltre ogni livello di guardia nel momento più acuto della crisi greca per poi rientrare, seppur solo in parte, dopo le assicurazioni di Herman Van Rompuy, presidente dell’Unione Europea, che la Comunità avrebbe difeso l’integrità monetaria dell’eurozona.



 

Stesso copione negli Usa: a Washington si respira, al di là dei proclami anti-banchieri del presidente Obama, a uso e consumo dei media, aria di grande smarrimento, anche per la litigiosità del Congresso, che sfiora livelli italiani. “Quand’ero alla Fed negli anni Ottanta – commenta Paul Volcker, il consigliere del presidente – per una nomina di un certo livello bastava una settimana. Ora, dopo più di un anno, non ci si è accordati sul nome del vice al Tesoro”.

 

Non stupisce, in una cornice del genere, che a Wall Street prevalga la sensazione che la grande riforma del sistema finanziario sia destinata a rientrare nel cassetto, con il risultato di rinfocolare il rancore contro le grandi banche, Goldman Sachs in testa, uno dei pochi sentimenti che accomunano Usa ed Europa.




Non è, naturalmente, solo colpa della politica. Anzi. Tanto era facile interpretare il rimbalzo dei mercati nel 2009 (e, di riflesso, recuperare parte delle perdite), tanto è difficile cavalcare l’onda di una situazione delicata quale quella attuale, sia sul fronte dei listini azionari che del mercato dei bond. Non a caso, dopo la grande vendemmia dell’ultima parte del 2009, l’offerta sul fronte dei corporate bond si è drasticamente ridotta, sia in America che in Europa, con il risultato che le poche offerte a più alto rating (vedi l’Enel) incontrano un impressionante successo.

 

Ma di offerte del genere, al momento, ce ne sono davvero pochine. In Borsa, a giudicare dai dividendi più alti degli interessi dei bond, le proposte interessanti non mancano. Ma non tutti si fidano, a fronte di indicazioni macro e micro che si prestano a diverse letture. La questione chiave, naturalmente, riguarda il livello dei tassi americani ovvero, tempi e modalità del rientro dal “quantitative easing”, la pioggia di liquidità che ha caratterizzato la politica di Ben Bernanke.

 

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Il presidente della Fed, si sa, ha sorpreso i mercati aumentando il tasso di sconto di un quarto di punto. Poi ha precisato, di fronte al Congresso, che questo non sta a indicare un cambio di rotta nella politica del costo del denaro destinato a restar basso per molto tempo ancora.Wall Street ha tirato un sospiro di sollievo, ma non è sfuggita la preoccupazione che sta dietro alla mossa della banca centrale: allargare la forbice tra il tasso di sconto, ovvero quello dei prestiti alle banche, e quello dei Fed Funds, oggi assai più stretta che in condizioni normali per consentire alle aziende di credito di approvvigionarsi di capitali con cui sostenere l’economia.

 

Purtroppo questo non è successo: in Usa come in Europa, questi quattrini, che non sono usciti dal circuito interbancario, sono serviti alle grandi banche d’affari (pur dotate, dopo la crisi dei paracadute concessi alle banche commerciali) per fare grossi utili finanziari.

 

In sostanza, Bernanke cerca in qualche maniera di correggere questa situazione, in attesa che il rimbalzo del Pil si traduca in una ripresa vera, anche sul fronte dell’occupazione e dei consumi: una speranza più che una convinzione, almeno per ora. Ancor peggio la situazione in Europa, anche al netto del dramma greco.

 

Impressiona, al proposito la forbice tra i risultati, positivi, di Deutsche Bank grazie all’intermediazione finanziaria e la crisi di Commerzbank, più ancorata all’attività tradizionale (immobiliare, in particolare) su cui gravano le tante partite a rischio ereditate da Dredsner. Il risultato? Dopo il rimbalzo del 2009, i listini hanno basi d’argilla, in assenza di una ripresa convincente dell’attività reale. E cresce la paura per le prossime scadenze: primavera ed estate saranno cruciali per definire tante partite aperte negli anni del denaro facile (larga parte dei subprime Usa andrà a scadenza nel 2010/11).

 

Il rischio, dunque, è che torni a ballare l’orso, magari sull’onda di qualche errore dei potenti, come quelli che, nel 1937, fecero ripiombare gli Usa nella crisi per colpa di un rialzo troppo affrettato del costo del denaro. Ad ascoltare Ben Bernanke, la Fed non ripeterà quegli errori. Anzi, prende piede la tesi che, per far decollare la ripresa, ci voglia nuovo deficit e una bella boccata di inflazione.

 

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Questo vale per gli esperti Usa, da Krugman a Kenneth Rogoff. Ma in Europa una politica del genere potrebbe significare la frattura tra aree forti e Paesi deboli dell’eurozona. A meno che l’Unione Europea non sappia prendere decisioni forti, a favore della Comunità. Se ci credete, abbiate fede: i “corvi” che si aggirano sull’euro resteranno a bocca asciutta.

 

Altrimenti, si profilano due scenari: un’ulteriore ritirata dell’euro attorno a quota 1,10, cosa che permetterebbe tra l’altro all’industria del Vecchio Continente di recuperare competitività. E agli investitori che puntano sugli Usa o su alcuni emergenti (ma attenti ad un possibile sboom della Cina e, di riflesso del Sud America) di fare buoni affari. Oppure, come ventila George Soros, se la Ue vorrà privilegiare al solito la lotta contro l’inflazione e i deficit fiscali, il rischio è che la corda che lega i 15 dell’eurozona si spezzi. E che i cds, prima, prendano ancora il volo.