In occasione dei 50 anni dalla morte di Adriano Olivetti il settimanale Vita in edicola questa settimana ha realizzato una lunga intervista a Giulio Sapelli, grande conoscitore della storia di questo personaggio mitico dell’imprenditoria italiana. Racconta: «Sono entrato al Centro studi Olivetti prima di laurearmi, nel 1966, quando c’era Franco Momigliano. Ero uno studente lavoratore diciannovenne e mi emozionavo incontrando Pampaloni, Volponi, Soavi. Adriano era morto da sei anni, e quella era una Olivetti già sconvolta perché il gruppo di controllo guidato da Aurelio Peccei, chiamato dai nuovi azionisti (Fiat, Pirelli, Mediobanca, ecc.), aveva deciso di vendere la divisione elettronica al principale concorrente, la General Electric».



Sei anni dopo si respirava ancora la presenza di Adriano Olivetti?

 

Si respirava ancora per le opere sociali perfettamente funzionanti, la biblioteca meravigliosa, gli stabilimenti fatti di vetro e luce, la fierezza dei lavoratori, l’umiltà e la bontà di gran parte dei dirigenti davvero fuori norma, e la presenza di molti intellettuali.



 

Quando si dissolve il sogno olivettiano?

La dissoluzione definitiva del suo sogno inizia con la morte di suo figlio Roberto, nel 1985, anche se già nel 1978 aveva lasciato ogni incarico nella società che aveva guidato sino al 1971. Lì ciò che restava di Adriano viene travolto con l’ingresso di Carlo De Benedetti, amministratore delegato dal 1978 e poi presidente dal 1983. Come ricorda l’ingegner Giovanni Truant, uno dei dirigenti della Olivetti in quegli anni, in un libro cui ho fatto una postfazione “Uomini e lavoro alla Olivetti”, «c’era in lui un senso di fastidio per tutto ciò che in azienda ricordava ancora lo stile di Adriano».



In un suo libro del 2002, “Merci e persone” compare un saggio sulla “santità” di Olivetti. Non è forse espressione esagerata?

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Assolutamente no, ne sono convinto. Quel saggio raccoglie l’intervento che feci nel 2001, in occasione del centenario della sua nascita, quando fui chiamato dalla Fondazione Olivetti a un momento celebrativo. Parlando della sua santità scandalizzai un po’ tutti, eppure per me è proprio così. Feci un paragone tra lui e Simone Weil (altra ebrea convertita al cattolicesimo) che Adriano, del resto, pubblicò per primo. In Adriano come nella Weil la nuova santità inizia con il lavoro, con l’amore per il lavoro e per i lavoratori. In lui io davvero vedo un santo contemporaneo.

 

Dovrà ammettere che in effetti si tratta di una lettura sorprendente, inedita…

 

Vede, bisognerebbe riguardare il catalogo delle Edizioni di Comunità e i titoli degli oltre 120 libri pubblicati. Non è un caso che sia lui a pubblicare L’idea di una società cristiana di Eliot. Guardate i libri che Adriano pubblica: Ignazio Silone e poi Erik Peterson (protestante convertito al cattolicesimo), Henri Bergson, Claudel, il Kierkegaard di Scuola di cristianesimo e Cristianesimo e democrazia di Maritain. Un catalogo di titoli che agli esegeti olivettiani troppo spesso sfugge. Come sfugge tanta parte dei suoi scritti. Ricordo quel passaggio mozzafiato raccolto in Città dell’uomo: «Quando l’azione politica cristiana è legata solo apparentemente alle forme spirituali e non si risolve in un corpo organizzato, in una Comunità concreta, nel suo ordinamento che si svolge in ordini spirituali, a nulla valgono gli sforzi isolati degli uomini di buona volontà». Adriano Olivetti ha due idee molto cristiane sull’economia. Santificare la persona santificando il lavoro, ovvero diminuire il grado di sofferenza del lavoratore e dell’uomo. E poi il dono, è il primo che porta nel discorso economico il tema del dono. Donare cosa? Assistenza sanitaria, le colonie per i bambini, il centro di psicanalisi. Nel 1948 in una lettera a Grazia Galletti, che due anni più tardi sposerà in seconde nozze, scrive: «Compiere il mio dovere che è lavorare, come servo di Dio, a costruire la sua città».

 

In questo senso lei parla di scandalo della memoria?

 

Censurando il suo aspetto profetico lo si seppellisce una seconda volta. Vede, tutto è già contenuto in quella frase del 1938: «Può l’industria avere dei fini? Vanno essi ricercati soltanto nell’entità dei profitti o non vi è nella vita della fabbrica anche un ideale, un destino, una vocazione?». Lui diede questa risposta: migliorare la vita dell’uomo, migliorare la città. Si continua a dimenticare questo afflato intimo che era però anche l’essenza di ciò che ha fatto.

 

Lei intravede una disseminazione delle sue intuizioni nell’oggi?

 

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La vedo in quei tanti giovani che si avventurano nella creazione dello sviluppo dal basso, la vedo nella creazione e nello sviluppo di cooperative sociali, luoghi in cui l’intraprendere è ancora alimentato dall’idealità. Non dimentichiamoci che Olivetti favorisce la nascita di un vero e proprio movimento cooperativo nel canavese e che dà vita a un istituto per studiare e favorire questa forma di impresa. Certo, c’è molto più Olivetti in tanto not for profit che in Confindustria. Ecco, tutto questo oggi viene annacquato in una memoria che ce lo restituisce come un “imprenditore illuminato”, ma Olivetti era tutt’altro che un imprenditore illuminato, era un uomo tormentato ogni giorno dalla sfida di costruire una società cristiana. Era un imprenditore profondamente religioso: l’idea di comunità gli viene da Martin Buber e dalla mistica ebraica, l’idea che l’industria debba avere dei fini gli viene dal personalismo cristiano, il rapporto tra economia e dono gli deriva poi dal cattolicesimo.

 

Nessuna traccia di Olivetti nella piccola impresa italiana?

 

Certo sarebbe bello intravedere qualcosa di Olivetti, ma la piccola impresa italiana si è sviluppata senza una guida culturale. Questo addolora perché proprio il pensiero di Olivetti avrebbe potuto dare a questa storia fondamentale per la nostra economia la sua metafisica, la sua idealità, ed invece è stata esaltata proprio nella sua frammentazione e spontaneismo.

 

Tra Adriano Olivetti e le pratiche di Csr, che rapporto c’è?

 

Non vedo nessun rapporto diretto di filiazione culturale. Olivetti interpreta la responsabilità dell’alta direzione di impresa, lui sa che la ricchezza obbliga a ridare. Oggi i Csr manager non sanno neppure chi era Olivetti.

 

(Riccardo Bonacina)