Gli effetti della grande crisi finanziaria continuano a manifestarsi sull’economia reale di tutti i paesi di qua e al di là dell’Atlantico. Gli effetti che la crisi arreca nella vita quotidiana vengono normalmente “misurati” dalle ripercussioni negative che producono nei tessuti economici dei paesi, ma, ci sembra cosa opportuna, rammentare che questi “tessuti”, nella loro più concreta espressione, sono sempre riconducibili a persone fisiche, ovvero al cosiddetto uomo della strada; quest’ultimo è quello che ultimamente li subisce e li sopporta. All’inizio e alla fine dei circuiti economici c’è sempre l’uomo.
Gli effetti della crisi finanziaria, che hanno trovato la loro origine nell’a-eticità dei comportamenti meramente speculativi di banche e di imprese, dovrebbero far sì che ora questi sistemi aziendali facciano ricorso a scelte ed a operatività ispirate ai principi di responsabilità sociale, ma “il lupo perde il pelo, non il vizio”. Assistiamo, invece, a un sistematico tentativo, da parte di queste economie aziendali, di ricorrere, anche se contabilmente camuffati, ai vecchi strumenti di perseguimento e di distribuzione di alti profitti, a loro volta spesso derivanti non dai risultati della gestione operativa, ma da ricercate plusvalenze straordinarie.
Il profitto, come surplus realizzato dalle imprese non è sempre e comunque un sano indicatore aziendale, per esserlo esso deve essere postulato nell’eticità delle scelte operative dei sistemi aziendali, e deve essere eticamente destinato. Il profitto, anche quello eticamente ottenuto non può (così come stiamo assistendo, specialmente nelle banche statunitensi) trovare solo, sempre e comunque la destinazione verso la remunerazione di manager e di azionisti-rentier, dimenticandosi di ciò che la comunità aziendale in particolare e quella socio-politica in generale hanno messo in essere per favorire la loro sopravvivenza nei mercati e il superamento della crisi che ancora ci attanaglia.
Non è lecito appropriarsi di ricchezza (profitto) che è stata raggiunta, in maniera preponderante, in forza di interventi diretti o indiretti delle comunità aziendali, nazionali o sovrannazionali. Questo profitto-ricchezza appartiene alle imprese stesse e deve restare nelle imprese per essere un positivo volano per la stabilizzazione e lo sviluppo delle imprese stesse. La “furba” sottrazione verso questa naturale destinazione della ricchezza-profitto è, al contempo, un atto di violenza e la dimostrazione del massimo disinteresse sociale di certi top manager. Il tornaconto economico – tanto sottolineato ed auspicato dalla scuola economica di Chicago – trova in questo comportamento il suo più abnorme e deteriore esempio.
Il profitto perseguito e destinato in maniera da “soddisfare” solo il proprio tornaconto personale, non è solo a-etico, ma è anche miope perché sostanzialmente contrario alla stessa sopravvivenza nello sviluppo delle imprese. Occorre rivolgere il faro dell’attenzione a queste problematiche e nel riesaminare tutto ciò che è accaduto nell’economie delle imprese e delle nazioni a causa della crisi finanziaria ci sembra cosa opportuna che venga posto l’accento anche sulla natura sociale delle imprese (siano esse private o pubbliche) e dei loro profitti.
Non siamo contro il profitto, siamo contro il suo insano perseguimento e alla sua insana destinazione.