Fiat resta uno dei temi caldi del dibattito sia politico che economico. Venerdì scorso il Presidente del gruppo Fiat, Luca Cordero di Montezemolo, ha dichiarato: «Da quando sono alla Fiat non abbiamo ricevuto un euro dallo Stato», scatenando molte reazioni. Intanto all’ultimo tavolo tenutosi proprio venerdì tra azienda, Governo e parti sociali si è parlato del futuro dello stabilimento di Termini Imerese, oltre che dell’opportunità di prolungare gli incentivi al settore auto anche per il 2010. Di tutti questi temi abbiamo parlato con Massimo Giannini, vicedirettore de La Repubblica e Direttore dell’inserto economico Affari e Finanza.



Come commenta le parole di Montezemolo di venerdì scorso?

Montezemolo ha detto una cosa giusta e insieme sbagliata. Giusta, perché gli incentivi non sono aiuti di Stato nel senso stretto del termine: non si tratta di sussidi a una singola impresa ed essi hanno più benefici per i consumatori che per i produttori. Però, dei benefici ci sono, tanto che Marchionne, all’indomani dell’ultimo cda di Fiat, ha dichiarato che i conti del 2010 peggioreranno (con un indebitamento netto superiore ai 5 miliardi di euro) se il Governo non rinnoverà gli incentivi. Dunque è su questo punto che sbaglia Montezemolo.



Cosa pensa del riferimento di Montezemolo al fatto che Fiat non ha ricevuto nemmeno un euro dallo Stato dal 2004?

Penso sia riduttivo, nell’analizzare i rapporti tra Fiat e Stato, prendere in considerazione solo gli ultimi 5 anni. Nessuno può negare che in 50 anni (per non voler estendere l’analisi a tutto il ‘900) Fiat abbia ricevuto aiuti diretti e rilevanti da parte dello Stato. Questo è un problema peculiare del nostro paese: non credo che in nessun altro Stato ci siano stati aiuti “ad aziendam” così importanti e prolungati. Per fare un paragone, secondo le valutazioni della Commissione europea, Fiat e Alfa Romeo nel periodo tra il 1977 e il 1987 hanno ricevuto dallo Stato quasi 7 miliardi di Ecu (circa 3,5 miliardi di euro, ndr), contro i 4 di Renault.



Sugli incentivi è ancora in atto un “balletto” tra Governo e Fiat. Secondo lei andrebbero rinnovati? E se sì con quali modalità?

 

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In Francia Sarkozy ha stanziato ingenti fondi per il settore auto, attraverso gli incentivi, vincolandoli però all’impegno dei costruttori francesi a non delocalizzare le produzioni. Credo che la stessa cosa poteva, doveva, potrebbe e dovrebbe essere fatta in Italia. Questo non significa che Fiat debba sentirsi obbligata a tenere aperti impianti che, dati alla mano, non portano profitti, ma l’azienda potrebbe assumere impegni maggiori su Mirafiori piuttosto che su Melfi. Questo è un dovere che devono avvertire sia il Governo che Fiat. Una seria politica industriale, però, non si fa solo con gli incentivi.

 

Cosa intende dire?

 

Nel corso degli ultimi decenni è mancata da parte dei Governi una politica industriale in cui fossero identificabili indicazioni sui settori nei quali il paese vuole continuare a scommettere e quindi a investire, anche in ricerca, formazione e legislazione contrattuale. Ed è per questo che sostengo che non si può fare una politica industriale pensando solo all’uso degli incentivi. Su questo punto ritengo che Marchionne e Montezemolo abbiano perfettamente ragione, nonostante abbiano le loro colpe.

 

Resta però il fatto che Fiat, nonostante un 2009 chiuso in perdita staccherà il dividendo ai propri azionisti…

 

Questa è stata un’altra pagina poco commendevole della vicenda Fiat di queste ultime settimane. Proprio mentre erano in atto trattative sul futuro di Termini Imerese e di Pomigliano d’Arco, oltre che sugli incentivi, Fiat, dopo un cda che ha approvato un bilancio per il 2009 “terribile”, secondo le stesse parole di Marchionne, ha annunciato il ritorno al dividendo. Come se non bastasse, ha poi annunciato due settimane di cassa integrazione per i lavoratori degli impianti italiani. Questo è stato secondo me un modo decisamente sbagliato e poco accettabile di impostare la strategia del gruppo.

 

Perché?

 

Perché è sembrato che da un lato si volesse assicurare alla famiglia Agnelli e agli azionisti una remunerazione per i loro investimenti. Dall’altro è arrivato il segnale che in una situazione di crisi, e senza gli incentivi, si deve agire sulla forza lavoro, imponendo sacrifici pesanti a chi già è in difficoltà. Va poi detto che esiste un problema relativo alla divisione auto di Fiat. La famiglia Agnelli, anche se non lo ha mai dichiarato apertamente, pare intenzionata a liberarsene, anche se non si capisce bene cosa resterebbe a quel punto del gruppo Fiat in quanto tale. Ciò nonostante riconosco che Marchionne sta facendo il possibile per salvare il marchio, indipendentemente dal suo radicamento in Italia.

 

E in questo senso l’acquisizione di Chrysler è stata fondamentale…

 

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L’operazione americana andava in questa direzione: con un azionista che non investe sul suo core business, con un’esposizione debitoria elevata nei confronti delle banche e con un mercato sempre più competitivo, l’unica cosa che poteva fare Marchionne era espandersi laddove possibile. Resta il fatto che i problemi non sono stati completamente risolti e penso non lo saranno finché gli Agnelli non decideranno una volta per tutte se vogliono continuare a far essere Fiat il loro player globale nel settore dell’auto. Se è così, devono crederci e investirci di più. Anche per dimostrare che le parole di Elkann “cuore e testa di Fiat restano a Torino” non è solo uno slogan.

 

Lei ha scritto la scorsa settimana che Fiat sta vivendo una fase di trasformazione: è un’azienda trans-nazionale nell’attesa di diventare globale. Data questa situazione, fino a quando si potranno mantenere gli impianti in Italia?

 

Questa è la domanda delle domande. Non è sbagliato rivendicare da parte di un’impresa privata che sta sul mercato la chiusura di quegli impianti che non danno più profitti. Ma rispetto a questa esigenza legittima e comprensibile ci sono due problemi di cui tener conto. Da un lato il fatto che Fiat, come dicevo prima, deve fare una scelta: se vuole diventare un grande player globale con testa e cuore in Italia allora deve “tutelare” le produzioni italiane. L’altro problema è che finora è mancata, come ho spiegato, l’elaborazione di una seria politica industriale da parte del Governo.

 

Nicola Porro su Il Giornale ha scritto che con i fondi che il Governo è pronto a mettere in campo per Termini Imerese (760 milioni di euro) si potrebbe finanziare il taglio dell’Irap per tutte le microimprese. Che cosa ne pensa?

 

Penso che porre la questione in questo modo sia sempre sbagliato, perché vorrebbe dire “svalorizzare” il salario e quindi il futuro dei lavoratori di Termini Imerese per enfatizzare e valorizzare il ruolo delle Pmi italiane. Penso sia una concezione un po’ rozza e schematica che può servire come battuta, ma che rischia di riaccendere un conflitto sociale che non fa bene al paese in questo momento. Siamo tutti sulla stessa barca, imprenditori e operai. Distogliere risorse dal settore lavoro per trasformarle in sgravi fiscali per le Pmi è secondo me sbagliato.

 

In Italia abbiamo un’anomalia rispetto ad altri paesi europei: tutti gli impianti automobilistici appartengono a Fiat. Non pensa che sarebbe stato meglio lasciare che Alfa Romeo venisse comprata da Ford, in modo da poter avere un altro costruttore in Italia?

 

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È probabile, ma ormai le scelte sono state fatte. Ragionare su quel che poteva essere fatto è sì necessario per non ripetere gli errori del passato, ma anche sterile perché non ci fa fare passi avanti rispetto alla realtà che abbiamo di fronte.

 

Potrebbe però servire per il futuro, cercando magari di far arrivare un costruttore straniero a Termini Imerese al posto di Fiat…

 

Sarebbe auspicabile, anche se faccio fatica a immaginare come possa un costruttore straniero intervenire in un impianto che Fiat, dati alla mano, ritiene improduttivo. Penso che la struttura organizzativa e contrattuale che esiste in quell’area renda onestamente molto difficile per chiunque continuare a fare automobili lì. In sintesi, penso che la missione auto in quella zona sia fallita e non più riproducibile.

 

Qual è allora il futuro di Termini Imerese?

 

Termini Imerese è un problema che Fiat non può risolvere da sola: occorrono progetti di riconversione che chiamano in causa il Governo e la Regione Siciliana. Quello stabilimento è inoltre una sorta di cattedrale nel deserto, come altri che ci sono in Italia, dove abbiamo impianti costruiti o fatti costruire per ragioni clientelari, senza la creazione di un tessuto produttivo e infrastrutturale nell’area che consenta di produrre a costi ragionevoli e con standard qualitativi competitivi adeguati.

 

(Lorenzo Torrisi)