Come si è visto nelle ultime settimane, e come era capitato anche in passato, quando ilsussidiario.net ospita lettere o contributi di ex dipendenti di Alitalia fioccano i commenti e i lettori sembrano dividersi in due “fazioni”: chi punta il dito contro gli ex “privilegiati”, rei di essersi procurati da soli il drammatico fallimento della compagnia di bandiera, e chi ritiene invece che abbiano pagato a caro prezzo anni di scelte manageriali sbagliate.



Un conflitto che sembra figlio di italiche tradizioni. Chi usufruisce di un servizio offerto da una compagnia pubblica si sente quasi sempre in diritto di pretendere cortesia, qualità ed efficienza, molto più di quando ha a che fare con un’azienda privata. È come se (dato il contributo delle proprie tasse) se ne ci sentisse proprietari. Dall’altra parte della barricata, i lavoratori pubblici o semi-pubblici si sentono meno stimolati a dare il meglio di sé.



Si tratta di un conflitto che viene senz’altro rinvigorito dalla visione di “Tutti giù per aria”, il docu-film in dvd realizzato e prodotto dagli stessi lavoratori di Alitalia e da poco distribuito in libreria: uno spaccato di realtà allo stesso tempo discutibile ma ricco di riflessioni, anche per i destini della nuova azienda nelle mani di Colaninno e Sabelli.

Tutti giù per aria, di cui ha scritto su queste pagine uno dei suoi autori, Guido Gazzoli, descrive i circa sei mesi a partire dalla dichiarazione di fallimento (o per essere più corretti di commissariamento) di Alitalia-Lai fino all’aprile del 2009, passando per il decollo del primo volo di Alitalia-Cai, il cui anniversario è stato celebrato il 13 gennaio scorso. Il tutto dal punto di vista dei lavoratori della compagnia di bandiera, o meglio di alcuni di loro: quelli che hanno dato vita al famigerato “fronte del no”.



Tanto per capirci e rinfrescarci la memoria, si tratta di quelli che avevano esultato all’annuncio del ritiro dell’offerta di Cai e che scandivano il famoso slogan “Meglio falliti che in mano a ‘sti banditi”. Come avevo già scritto all’epoca, ritengo questi lavoratori degli irresponsabili. Cai al momento rappresentava per loro l’unica possibilità di mantenere un posto di lavoro, seppur a condizioni contrattuali meno favorevoli. Ed è proprio dall’esaltazione di questo manipolo di lavoratori in lotta che iniziano le mie critiche a Tutti giù per aria.

Serve infatti a poco sostenere (come viene fatto nel film) che compagnie aree come Air France e El-Al (per di più negli anni ’90 quando il termine low cost non diceva niente a nessuno) sono uscite da crisi pesanti senza tagliare posti di lavoro o licenziando meno del 5% del personale. Potrei citare infatti i casi più recenti (anni 2000) di Iberia, privatizzata e risanata con il taglio di circa il 25% del personale, e di British Airways che ha tagliato oltre il 30% del suo organico. Senza dimenticare il recentissimo caso di Jal che dovrà far fuori oltre 15.000 teste.

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Per questo era da incoscienti gettare alle ortiche l’opportunità di continuare a lavorare per molti e la possibilità per alcuni di godere di ammortizzatori sociali sconosciuti ad altre categorie di cittadini. Specie in un momento storico in cui era già nell’aria l’arrivo di una crisi finanziaria ed economica che avrebbe preso il via dal crac di Lehman Brothers a metà settembre.

 

Questo per dire che occorre realismo nel cercare o proporre soluzioni. Quando un’azienda è in crisi agisce subito per sfoltire il proprio organico. Le compagnie aeree sono poi ultimamente in feroce concorrenza tra di loro e il lavoro è quella parte di costo su cui si può velocemente risparmiare e agire per non perdere ulteriore terreno rispetto ai competitors. Nutro rispetto e comprensione per i cassaintegrati, specie perché gli assegni dall’Inps arrivano con un discreto ritardo, ma va detto che quelli di Alitalia dovrebbero lamentarsi meno degli altri, dato che a loro è concesso più tempo per cercare di ricollocarsi sul mercato del lavoro (cosa quasi mai facile).

 

Dalla visione di Tutti giù per aria sembra trasparire la possibilità di un’alternativa ai fatti poi verificatasi. È molto difficile però fermare una sfera di acciaio che già corre su un piano inclinato. Alitalia, da forte vettore negli anni ’90, non è riuscita ad adattarsi a un mercato in mutamento, ha messo in fuga Klm e non hai mai creduto in Malpensa. E serve poco, come fa Tutti giù per aria, accusare il Sindaco di Milano di voler tenere i voli a Linate, quasi che questo fosse il motivo principe della crisi di Alitalia. Vogliamo forse dimenticarci dell’assurdità per cui gli equipaggi in partenza da Milano facevano base a Roma? E non erano forse i sindacati/lavoratori a richiedere questo trattamento?

 

Non si dia la colpa a Milano per le disgrazie di Alitalia. Il Piano Prato (taglio dei voli da Malpensa verso Fiumicino) poteva essere legittimamente attuato anni prima se questo fosse servito a dare qualche speranza in più alla compagnia di bandiera che si sarebbe potuta concentrare sull’unico hub di Fiumicino. Purtroppo è stato messo in campo troppo tardi, come un respiratore artificiale per un paziente in coma.

 

Se dunque c’era una situazione così grave, perché insistere tanto nel non voler cedere ai “banditi” di Cai? Da Tutti giù per aria sembra trasparire l’esistenza di soluzioni alternative sia a Cai che al fallimento. Dato che non sono esplicitate, provo a immaginarle. La prima sarebbe stata quella di strisciare ventre a terra fino a Parigi e convincere Spinetta e Air France a ripresentare l’offerta sonoramente bocciata all’inizio del 2008. Oppure si sarebbe potuto arrivare proprio al limite del fallimento sperando che qualche compagnia straniera venisse a comprare Alitalia per pochi euro.

 

Un’altra eventualità poteva essere la statalizzazione completa della compagnia di bandiera con nuove iniezioni di denaro pubblico per cercare di rilanciarla. Ma chi poteva fidarsi di un “imprenditore” (lo Stato) che in 10 anni aveva investito oltre 2 miliardi di euro senza riuscire a far chiudere in utile un bilancio di Alitalia? E che dire dei sei diversi piani industriali presentati in meno di 5 anni dai manager di turno per il rilancio di Alitalia rimasti carta morta?

 

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C’era poi la proposta mossa da alcuni sindacati di base, che avevano messo sul piatto circa 300 milioni di euro per supportare qualunque iniziativa concreta di rilancio di Alitalia (diversa da quella di Cai). Infine vi era la proposta secondo me più suggestiva, cioè andare a ripescare l’offerta scartata quando fu scelta quella di Air France tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Si tratta della proposta mossa da AirOne, che già nel 2006 aveva presentato un’offerta per Alitalia, in compagnia di Banca Intesa. Due nomi che suonano famigliari a Cai. Si sarebbe dunque finiti allo stesso punto di adesso? Per i lavoratori probabilmente sì, forse sarebbe andata anche peggio, per il resto sarebbe andata molto meglio e dopo vi spiegherò perché.

 

Dunque non si capisce dove voleva andare a parare il fronte del no. E questo mi dispiace, perché il clima di recriminazione che trasuda da Tutti giù per aria è pesante. Ritengo sbagliato esaltare la lotta, richiamare come atto eroico il fatto che i lavoratori di Air France erano riusciti in passato a bloccare l’intera Francia per 15 giorni conquistando il favore dei cittadini e costringendo il governo alla resa quando si era cercato di tagliare posti di lavoro. Lo ritengo sbagliato perché i tempi dell’autunno caldo sono passati da ormai 40 anni e dubito fortemente che gli italiani possano diventare solidali con chi gli blocca strade e aeroporti per giorni.

 

Un vero peccato, perché il clima di recriminazione di Tutti giù per aria avvelena e fa passare in secondo piano le giuste osservazioni e gli ottimi spunti di riflessione che questo film contiene. Provo a sviscerarli. Partiamo da considerazioni interne ai lavoratori. Tutti giù per aria mostra come tra colleghi si sia creato una sorta di fossato interno. Le divisioni, gli interessi diversi di persone e categorie non hanno permesso di avere una forte posizione comune che poteva essere portata avanti e argomentata di fronte agli italiani, al Governo e a Cai.

 

E qui si può agganciare la critica ai sindacati che viene fatta in Tutti giù per aria. Personalmente ritengo che essi abbiano agito con senso di responsabilità, resta però il fatto che nel corso degli anni la fallimentare gestione di Alitalia ha goduto della loro complicità. Se poi i lavoratori hanno da recriminare nei confronti dei sindacati, è evidente che esiste un problema di rappresentanza, che va oltre Alitalia, dato che le organizzazioni dei lavoratori hanno tra i loro iscritti più pensionati che persone in attività. E se i lavoratori di Alitalia continuano a lamentarsi per il mancato rispetto di accordi siglati da parte di Cai, perché i sindacati non fanno niente?

 

Un altro merito di Tutti giù per aria è di ricordare (perché gli italiani hanno un po’ la memoria corta) che Cai ha comprato gli asset di Alitalia (e non il “carrozzone” comprensivo di debiti) a un prezzo di saldo, benché certificato da un advisor che però non si può definire neutrale in tutta la vicenda.

 

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La privatizzazione di Alitalia, viene poi ricordato, ha giovato molto ad AirOne. Da possibile acquirente di Alitalia ne è diventato parte integrante. Per tornare a quanto dicevo prima, se fosse stato Toto a comprare la compagnia decotta non avremmo avuto bavagli all’antitrust, probabilmente i contribuenti ci avrebbero rimesso di meno, mentre è facile immaginare che i tagli al personale sarebbero stati pesanti (basti ricordare che nel 2006 i sindacati non accettarono l’offerta di acquisto di AirOne).

 

Ma il merito più grande di Tutti giù per aria è fare chiarezza su un punto controverso. Si potranno amare o meno i dipendenti di Alitalia, ritenerli dei fannulloni poco cordiali, ma non si potrà mai dire che il fallimento della compagnia sia avvenuto per colpa loro. I suoi alti costi di gestione infatti non dipendevano dai dipendenti. Contrariamente a quanto si possa pensare, la voce dei costi relativi al personale veniva dopo quella del carburante (colpa anche di una flotta obsoleta rispetto ai concorrenti) e del marketing (non abbastanza efficace dato che gli aerei di Alitalia viaggiavano con meno passeggeri di quelli dei suoi concorrenti). Tanto per essere chiari, su 100 euro di entrate, Alitalia ne spendeva 18 per il lavoro (ora ne spende anche meno), mentre Air France 29. Ma guardando alla voce altri servizi, la compagnia di bandiera raggiungeva i 94 euro, contro i 63 dei francesi.

 

I veri colpevoli della debacle di Alitalia vanno dunque cercati altrove, sicuramente nel mondo politico che non è riuscito a far gestire bene la compagnia di bandiera e che ha fatto tutto di corsa quando ormai era troppo tardi per salvarla. Un’indagine andrebbe poi fatta nel campo sindacale, il quale si è sempre opposto a riforme strutturali necessarie a tentare una cura per il malato terminale che era Alitalia. Diciamo che la “fannulloneria” e i “privilegi” di alcuni dipendenti potranno avere inciso al massimo per il 10% a creare la situazione disastrosa.

 

Da quanto scritto si potrebbe dunque pensare che Tutti giù per aria sia una fotografia di un passato ormai lontano e che quindi non abbia più nulla da dirci per il futuro. Ma non è così. Infatti possiamo trarne spunti anche per giudicare l’operato della nuova compagnia. Sappiamo infatti, secondo quanto dichiarato da Rocco Sabelli, che nel terzo trimestre del 2009 (quello chiuso in utile) Alitalia ha registrato un tasso di riempimento medio dei propri aerei del 75%. Un dato in progressivo miglioramento, ma non così incisivo rispetto alla storia degli ultimi anni di Alitalia. Soprattutto se si considera che: a) chi vuol viaggiare sulla Linate-Fiumicino deve per forza riempire uno degli aerei di Alitalia; b) la nuova compagnia ha meno aerei rispetto alla vecchia e questo vuol dire che in teoria dovrebbe riuscire più facilmente a riempirli.

 

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Inoltre, come accennato poco fa, il costo del lavoro nella nuova compagnia è diminuito, il prezzo del petrolio è stato relativamente basso, ma nonostante tutto ciò il 2009 non si chiuderà con un risultato molto diverso da quello ottenuto nel 2007. Sia chiaro, se Alitalia dovesse diventare una compagnia guidata da imprenditori italiani che crea utile, che cresce, che compete secondo le regole del mercato non potremmo che essere contenti. Ora, purtroppo, Alitalia non è tutto questo. Non si tratta di essere gufi o di avercela con Cai, si tratta di sano realismo.

 

Ovviamente possiamo anche ricordare a parziale discolpa di Colaninno e soci che hanno dovuto affrontare le turbolenze della crisi economica, che non ha aiutato nessuna impresa, e di una difficile fase di start-up (se così vogliamo definirla) della nuova compagnia. Per questo il 2010 sarà davvero l’anno decisivo per Alitalia. Se non riuscirà a fare meglio, nonostante il monopolio, nonostante una flotta che dovrebbe facilitare il raggiungimento di un alto load factor e nonostante un costo del lavoro decisamente concorrenziale, allora saranno guai. Vorrà dire che i vecchi vizi di Alitalia non sono stati persi. E ai lavoratori converrà dare una mano a Colaninno e Sabelli quest’anno, se non vogliono ritrovarsi di nuovo Tutti giù per aria, o magari a frequentare un corso di francese alla Sorbona.

 

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