Qualcuno, di solito molto ben informato, racconta che il governo sapesse della chiusura di Termini Imerese già da molti mesi. In un incontro ai massimi livelli, Fiat ha messo sul piatto le difficoltà e i costi che sosteneva per produrre in Sicilia e a Pomigliano D’Arco. Allora, sostengono le stesse fonti, il governo promise aiuti per lo stabilimento campano perché i dipendenti erano, e sono, circa 5 mila e la tensione sociale sarebbe arrivata a livelli non controllabili, e allargò le braccia su Termini Imerese. L’azienda torinese prese atto, lasciò il tavolo e accelerò i tempi dell’operazione in Serbia dove conta di realizzare 200 mila auto all’anno.
Ammesso che le informazioni siano esatte, da allora la situazione è completamente cambiata: si è passati da un accordo informale a uno scontro radicale. Di fatto non è successo ancora nulla, ma i toni del ministro Scajola sono da guerra aperta e le risposte di Sergio Marchionne ben poco diplomatiche.
Nelle polemiche si perdono, però, di vista alcune cose fondamentali. La prima è che Fiat, forse perché non ha nuovi e importanti lanci di prodotti nel 2010, può fare a meno degli incentivi ma il mercato dell’auto in Italia no. Senza il contributo statale alla rottamazione, una droga per la domanda di cui si dovrebbe, potendo, fare a meno, le vendite alla fine di quest’anno raggiungerebbero una cifra vicina a 1,7-1,8 milioni di vetture.
Tutte le case automobilistiche estere in Italia avrebbero non poche difficoltà, una parte delle aziende dell’indotto tirerebbero giù la saracinesca e una fetta significativa dei concessionari, che attualmente occupano circa 170 mila persone sarebbero costretti a fare la stessa cosa. Il neo presidente della categoria Filippo Pavan Bernacchi da un mese si sbraccia per far capire che gli incentivi auto non sono incentivi alla Fiat e che lo scorso anno il 70% di quanto è stato stanziato è finito nelle casse di costruttori esteri, ma le sue sembrano parole al vento: «È paradossale» racconta «che per “aiutare” alcuni lavoratori, se ne sacrifichino altri, mille volte più numerosi che quasi sempre non godono di nessun ammortizzatore sociale».
Il secondo punto è che a Termini Imerese non si possono produrre auto perché costano più che altrove. In Sicilia non si è creato un indotto significativo e la maggior parte dei componenti arrivano dalla Basilicata o dal Lazio. Se ci fossero dei trasporti decenti il sistema potrebbe essere efficiente, ma in ogni caso sarebbe più costoso. In un momento difficile di mercato durante il quale si riducono i margini di guadagno, mille euro spostano di molto i termini economici della questione. A Termini Imerese si può fare altro. Ma qualsiasi cosa si farà, è quasi certo che la spesa per il contribuente non sarà pari a zero.
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La terza questione è quella degli aiuti pubblici. Nessuno nega che La Fiat sia stata abbondantemente finanziata dallo Stato fino all’arrivo di Marchionne e forse anche per questo il manager italo-canadese l’ha trovata a un passo dal fallimento. Ma da allora, come dimostra la ricerca effettuata dal ilsussidiario.net, sono arrivati solo fondi per la formazione ai quali possono accedere tutte le aziende italiane.
In Francia il governo controlla il 15% delle azioni di Renault e ha fornito un finanziamento miliardario alle case automobilistiche per fronteggiare la crisi dello scorso anno. Negli Stati Uniti senza l’aiuto colossale di Barack Obama Gm e Chrysler non ci sarebbero più e, nonostante questo i sacrifici, in termini di posti di lavoro persi e fabbriche chiuse, sono stati pesantissimi. Come in Germania, dove il governo ha finanziato con un prestito ponte di 5 miliardi di euro il proseguimento delle attività di Opel, ha gestito il passaggio a Magna e ha dovuto subire il ritorno di General Motors obtorto collo.
In Italia non è successo nulla di paragonabile. Anzi durante la fase più acuta della crisi Marchionne ha avuto il coraggio di candidarsi al salvataggio di Chrysler e ora ha una grande opportunità di far crescere Fiat fino a farla diventare un competitor mondiale. Ed è forse tutto qua il problema. Con i tre marchi della casa americana, i discreti successi di vendita in Europa, lo stabilimento in Serbia per alimentare il mercato dell’Est, Fiat sta diventando sempre meno dipendente dall’Italia.
Lo dimostrano le quote di auto vendute nel nostro Paese rispetto a quelle complessive del Lingotto. Ma forse lo dimostrano di più gli atteggiamenti e le prese di posizione dei vertici di Fiat in questi giorni.