Si scrive Grecia, si legge Germania. La reazione furibonda della Bundesbank alla proposta del ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schauble, in merito all’istituzione di un Fondo Monetario Europeo in grado di coordinare le iniziative a difesa dei membri dell’eurozona è la conferma delle incertezze sul futuro dell’Europa unita che attraversano il mondo politico e l’opinione pubblica del Paese più importante della comunità.



Come è noto, infatti, l’idea di dar vita al FME sulla falsariga del FMI di Washington è stata avanzata da uno dei ministri più autorevoli e più apprezzati dai “falchi” della banca centrale tedesca, ovvero Schauble. Il responsabile del dicastero delle Finanze ha ipotizzato la nascita di un organismo, non si sa se autonomo o sotto l’egida della Bce, che possa operare nelle situazioni di emergenza (vedi il caso della Grecia) con la stessa efficacia e tempestività del Fondo di Washington.



Perché non affidarsi all’Fmi? Per motivi di sovranità politica e di prestigio dell’eurozona, ma anche per lanciare un segnale forte ai mercati: a undici anni dal varo della moneta unica, la comunità compie un balzo in avanti sulla strada dell’integrazione finanziaria, garantendo un’arma a sostegno dell’euro. Seconda ragione: il varo della task force a vantaggio dei membri più deboli dell’area monetaria comune, boccone indigesto per l’opinione pubblica tedesca restia a “far sacrifici” a vantaggio dei greci che, tra l’altro, hanno un sistema pensionistico più favorevole, sarà accompagnato da specifiche garanzie, ancora tutte da definire.



Quel che si sa, però, è che Berlino, in piena sintonia con la Francia, intende accompagnare il varo del Fondo con clausole severe: in caso di mancato rientro nei parametri di Maastricht entro un tempo definito dall’intervento di sostegno, il Paese incriminato perderà il diritto ai fondi comunitari e/o al diritto di voto presso la Commissione Europea. Condizioni severe, ma che colgono solo una parte del problema. È giusto, infatti, richiamare al rigore finanziario i partner più deboli (o più allegri) della Ue. Ma è probabilmente ancor più urgente individuare i meccanismi di controllo dei comportamenti dei partner forti, quelli cioè che vantano un surplus strutturale della bilancia commerciale.

Come notava nel novembre del 1941 lord Maynard Keynes, impegnato nel disegnare il sistema che vedrà (in parte) la luce a Bretton Woods, “un paese che vanta un saldo positivo strutturale negli scambi con il resto del mondo deve impegnarsi a correggere questo squilibrio”. E ancora: “Non dev’essere consentito al creditore di non porre rimedio al problema, con una politica attiva”, ovvero con lo stimolo a consumare di più. Parole profetiche, che sembrano scritte apposta per la “panzer economia” di Berlino che, nonostante i forti investimenti produttivi nell’Est Europea e in Oriente, resta un’economia fortemente orientata all’export, con un trend dei consumi fortemente influenzato in chiave negativa dall’invecchiamento della popolazione.

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Ma su questo tasto l’opinione pubblica tedesca non ci sente. Anzi. La vera opposizione al piano Schauble, in contemporanea con la visita di Angela Merkel al presidente della Comunità, Jean-Paul Juncker, non è partita da Roma, Madrid o dai banchieri della City, impegnati in una robusta campagna anti euro, bensì dal cuore del sistema della Repubblica Federale: Alex Weber, presidente della Bundesbank, ovvero il principale concorrente di Mario Draghi per la successione a Jean-Claude Trichet alla Bce, ha bocciato senza appello il progetto del suo ministro delle Finanze. “Ogni proposta – ha detto Weber – che preveda l’istituzionalizzazione degli aiuti eccezionali è fuori luogo. Qualsiasi discussione che esuli dal tema di far rientrare la Grecia entro i binari previsti dalle regole europee è uno sgradito diversivo dal tema centrale, che resta quello del consolidamento fiscale”.

 

Un parere analogo era stato espresso già alla vigilia, lunedì 8 marzo, da Jurgen Stark, il membro tedesco del direttorio della Bce. Manco a dirlo, secondo il regolamento dell’Eurozona, è sufficiente il veto dei due esponenti tedeschi per bloccare il progetto a Francoforte. Insomma, il “diktat” tedesco, così duro agli occhi di una parte dei 16 membri dell’area della zona comune, è comunque troppo morbido per i gusti di una bella fetta della Germania più autorevole. E non si tratta, ovviamente, di una semplice disputa di politica economica o finanziaria, bensì è il sintomo di un dilemma che attraversa la Germania, due decenni dopo la caduta del Muro e la rinuncia al marco, che la maggior parte dei tedeschi giudica ancor oggi un sacrificio obbligato per ottenere il sì della Francia all’unificazione, piuttosto che un coerente passo verso l’unità d’Europa.

 

Dietro i dubbi sullo scudo a favore dell’euro, al di là del caso greco (comunque circoscritto e di facile soluzione), spunta la tentazione di un cambio politico: meno Europa, legami più stretti con l’Est russo, grande mercato di sbocco per l’export ma anche fornitore dell’energia necessaria. Ed è questa la vera partita che si deve giocare a Bruxelles in vista della sperata ripresa: un’Europa zoppa non può correre.