Alberto Alesina e Andrea Ichino, in un articolo pubblicato dal Sole 24Ore domenica 7 marzo, replicano alle osservazioni critiche al loro ultimo libro, L’Italia fatta in casa. La replica merita una risposta. Semplificando, le tesi del libro sono due:
1) La famiglia italiana contribuisce poco alla crescita economica del Paese perché molte delle attività che in altri Paesi vengono svolte dal mercato (cura dei figli, pulizia, cucina) in Italia vengono svolte in casa. Dalle donne in particolare. Se si vuole aumentare il contributo della famiglia al Pil occorre fare uscire le donne di casa e la strada migliore è detassare il loro lavoro.
2) La famiglia italiana è spesso un freno alla meritocrazia e alla mobilità geografica dei giovani che preferiscono non muoversi da casa (o muoversi ma nel raggio di un chilometro da casa) potendo godere delle sicurezze dei genitori (reddito “certo”, cassa integrazione). Perciò per indurre i figli a uscire di casa occorre togliere un po’ di sicurezza ai padri.
L’argomento più interessante contenuto nell’articolo del Sole (assai più moderato rispetto al libro) consiste nel fatto di considerare la famiglia come “produttrice di beni e servizi tra cui, in particolare, l’assicurazione contro la disoccupazione […]. Un ruolo che richiede la protezione assoluta del reddito del capofamiglia maschio a cui lo Stato garantisce dunque il lavoro o comunque il potere d’acquisto mediante la cassa integrazione e, nella peggiore delle ipotesi, il traghettamento senza troppi traumi alla pensione anticipata”. Questo sistema di welfare danneggia i giovani, i quali “fanno e faranno sempre più fatica a trovare un impiego”, perché poco disposti a spostarsi causando “l’immobilità geografica” che “rende il Paese meno efficiente”.
È del tutto evidente che la divergenza riguarda temi valoriali. Ovvero: è la famiglia che deve essere utile all’economia o è l’economia che deve essere utile alla famiglia? Detta altrimenti: è più utile introdurre modifiche all’interno della famiglia per sostenere la produttività del mercato o è meglio introdurre modifiche all’interno del mercato al fine di sostenere la famiglia?
Io sono per il secondo approccio, Alesina e Ichino per il primo. Aggiungo subito, a scanso di equivoci, che essere pro-famiglia non significa essere anti-mercato: questo è l’equivoco culturale di fondo dal quale una certa cultura economica deve ancora liberarsi. Diamogli tempo. Ma sono le proposte concrete che non reggono alla prova dei fatti.
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Il filo del ragionamento di Alesina e Ichino è il seguente: un mercato più efficiente dà più possibilità di impiego per i giovani e per renderlo più efficiente basta rendere un po’ più precari i padri così da “costringere” i figli a muoversi anche geograficamente alla ricerca di un impiego. Logico. Ma se i due economisti portassero fino in fondo questa tesi dovrebbero concludere che gli immigrati (regolari o irregolari), senza casa, senza un lavoro stabile, spesso senza una famiglia, sono assai più utili all’efficienza del mercato dei figli di italiani che hanno il padre con un lavoro, possono contare sulla cassa integrazione o sul pensionamento anticipato. E in effetti è proprio così.
Togliere garanzie per indurre la mobilità è una proposta autoritaria e illiberale, perché non dà scelta se non quella di vagare alla ricerca di un lavoro accettandone uno qualsiasi. Alesina e Ichino sostengono, però, che il mercato sarebbe così più efficiente e, grazie alla corretta allocazione delle risorse umane, offrirebbe maggiori opportunità di lavoro e più ricchezza per tutti e quindi la probabilità statistica che il giovane, “mobile” e “adattabile”, trovi un’occupazione aumenterebbe esponenzialmente.
Il “modello”, insomma, funziona. Ma a parte il fatto che ciò di cui si sta parlando sono persone e non funzioni di un algoritmo, bisognerebbe anche chiedersi quale tipo di lavoro. Il figlio, privato di ogni altra alternativa, avrebbe assai meno potere contrattuale di fronte alle imprese che glielo offrono (e non escluderei che sia esattamente questo lo scopo che si vuole raggiungere) magari senza garanzie, senza contratto, senza tutele. Un mercato del lavoro, insomma, un po’ più selvaggio. Non di molto, ma un po’ sì. Un mercato nel quale non si capisce, tra l’altro, quale funzione dovrebbero svolgere i sindacati. Probabilmente nessuna. E per fortuna che nella premessa dell’articolo i due economisti affermano di voler “migliorare il modo in cui la famiglia contribuisce al benessere del nostro Paese”.
Il problema, molto più banalmente, riguarda il livello di reddito sul quale un giovane laureato può contare. L’Italia vanta i salari più bassi d’Europa che rendono assai difficile a un figlio vivere dignitosamente senza l’aiuto della famiglia di provenienza. Il motivo dei bassi salari sta nella bassa produttività, a sua volta causata dai minimi investimenti delle aziende in nuove tecnologie e in ricerca, a sua volta poco e male incentivate da uno Stato oberato dal terzo debito pubblico del mondo.
Un debito che consente ben poche riforme a sostegno della trasformazione tecnologica delle aziende del Paese. Se non si vuole cadere nel grottesco è ben difficile imputare alla struttura famigliare italiana la responsabilità della scarsa innovazione delle aziende.
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Basta poi alzare gli occhi dalle teorie per rendersi conto di un altro dato di fatto e cioè che ciò che chiedono le famiglie non è l’Università vicino a casa (altra accusa che i due economisti le imputano), ma un sostegno vero a chi ha figli, aiuti alle giovani coppie, più asili nido, l’introduzione del quoziente famigliare, il rilancio dell’edilizia pubblica per offrire a tutti la possibilità di una casa dignitosa e via dicendo. Si può replicare che tutto ciò non sia economicamente realizzabile, ma non si può sostenere che non sia “giusto”, dato che il giusto o lo sbagliato non è una variabile del mercato, ma è il giudizio su un’esperienza.
Insomma, è tutto un po’ più complesso della semplice mobilità geografica. Poi c’è l’annosa (e noiosa) questione del “familismo amorale”: legami famigliari “troppo” forti hanno l’effetto di promuovere chi è all’interno del “gruppo” escludendo gli altri. In questo senso il “familismo amorale” è anti-meritocratico. Da qui a sostenere che la famiglia è antimeritocratica è un lampo.
Che in Italia esista una forma di “familismo amorale” è pacifico (basta guardare chi vince i concorsi universitari), ma è illusorio pensare che rendendo più fluidi i legami tra i componenti di una famiglia si abbasserebbe la sua “amoralità” la cui sede non è nella famiglia, ma nella persona. Se si vuole una società più meritocratica la soluzione è quella di spalancarla alla concorrenza introducendo liberalizzazioni a tutti i livelli, professioni comprese. Esattamente ciò che non vogliono non le famiglie, ma chi di quelle caste fa già parte.
Un’ultima precisazione. Nel loro articolo Alesina e Ichino parlano di un attacco “ideologico” proveniente dal mondo cattolico alle loro tesi come se la religione, difendendo la famiglia, fosse “complice” della mancata modernizzazione del Paese. Anche questa tesi non è nuova. Purtroppo è sul terreno della logica, della concezione del mercato e dei principi liberali che Alesina e Ichino scivolano clamorosamente. Che sia un cattolico o un orangotango a dimostrarlo è del tutto secondario.