«Il nostro obiettivo è invitare gli italiani a riflettere sui costi e sui benefici del ruolo affidato alla famiglia». A scriverlo sono Alberto Alesina e Andrea Ichino sul Sole 24 Ore di domenica 7 marzo. I due economisti difendono il loro ultimo lavoro, L’Italia fatta in casa, uscito alla fine del 2009 e anticipato da un articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere, dagli strali di ampia parte del mondo cattolico e non solo. Dal card. Ennio Antonelli a ilsussidiario.net, passando per un articolo dell’economista Marco Vitale su Vita (anticipato sempre da ilsussidiario.net) e di Luigino Bruni su Avvenire, il libro si è attirato una pioggia di critiche.



L’articolo di Marco Cobianchi uscito ieri su queste pagine le riassume compiutamente. «È più utile – scrive Cobianchi – introdurre modifiche all’interno della famiglia per sostenere la produttività del mercato o è meglio introdurre modifiche all’interno del mercato al fine di sostenere la famiglia? Io sono per il secondo approccio, Alesina e Ichino per il primo».  La parola, oggi, all’autore Andrea Ichino.



Professore, lei e Alberto Alesina avete scritto che il vostro libro è stato vittima di molte letture unilaterali. Voi stessi dite che ci sono temi complessi che si prestano ad una doppia lettura. La crisi economica, e i suoi rapporti con il welfare basato sulla famiglia, è uno di questi?

Sì, la crisi è un esempio che rende bene il problema. Il posto fisso – e le tutele offerte dalla Cig – ha alcuni vantaggi: consente ai capifamiglia di contare su un reddito stabile e sicuro, e più in generale alla famiglia di fare da agenzia di erogazione del welfare. Questo è senz’altro un elemento che ci distingue in modo positivo dal resto del mondo per la soluzione ad alcuni problemi di assistenza sociale, come ad esempio quello della cura degli anziani in famiglia anziché in costose strutture esterne.



Ma tutto questo ha un costo, non è vero?

Esatto. E siccome, come si suol dire, la coperta è corta e non possiamo moltiplicare posti di lavoro a piacimento, se proteggiamo oltre ogni limite ragionevole l’occupazione dei maschi adulti, qualcuno ci va di mezzo. In Italia sono i giovani in cerca di primo impiego. Ritardano l’ingresso nel mercato del lavoro, si sposano più tardi, con una serie di conseguenze sociali ed economiche a cascata che nel libro si trovano ben descritte.

Come spiega che la vostra analisi, ampiamente suffragata da dati econometrici, sia stata così attaccata?

Non riesco a capire perché. Forse è avvenuto un po’ come per l’articolo 18 nel caso della Cgil: parlare di famiglia tocca un nervo scoperto, al punto che qualsiasi tentativo di mostrare che ci sono prospettive e soluzioni migliori senza per questo passare al capitalismo selvaggio, solleva immediatamente una posizione di chiusura.

Ieri Marco Cobianchi, su questo giornale, ha replicato al vostro ultimo articolo sul Sole.

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Un articolo bello e interessante. Peccato che Cobianchi legga L’Italia fatta in casa come se il libro facesse su tutto una scelta di campo, o bianco o nero. Non è così. Se uno legge le due storie a conclusione del nostro libro, difficilmente potrebbe vedervi la chiara scelta di un mondo interpretativo assunto in blocco rispetto ad un altro.

 

Siete stati accusati di essere contro la famiglia. Siete fautori di una società «polverizzata», nella quale il percettore e produttore di reddito non è la comunità familiare, ma l’individuo?

 

Vede? Lei in realtà mi ha appena chiesto non una, ma due cose diverse. Vogliamo una società polverizzata? La risposta è no, e lo diciamo chiaramente nel libro, quando scriviamo che una società senza famiglie non sta in piedi. Ma che sia l’individuo ad essere produttore e percettore di reddito non credo si possa dibattere: è semplicemente la realtà dei fatti. Penso però che il significato che lei vuol dare alla seconda parte della domanda sia questo: se ritengo che la famiglia sia una unità dotata di una sua vita propria, invece di una collezione di individui che decidono di vivere insieme.

 

L’ha interpretata perfettamente. Cosa risponde?

 

Se questa è la domanda, io penso che la famiglia sia una unità di individui che decidono di vivere insieme. E credo che sia proprio qui la differenza con le posizioni del mondo cattolico, e con quello che il mondo cattolico ci rimprovera. In un suo articolo Luigino Bruni dice che nel nostro libro si vedono individui, ma non rapporti, non la famiglia come unità di questi rapporti. In effetti è un problema molto complesso, confermato dal fatto che lo stesso dibattito che c’è a livello di valori antropologici e sociali ha un suo equivalente anche a livello tecnico-economico.

 

Si spieghi.

 

Fino agli anni ’80-’90 i modelli che affrontavano il tema della famiglia lo facevano descrivendola come un agente economico unitario. Più di recente, invece, gli studiosi – Pierre-André Chiappori per esempio – hanno iniziato a scavare «dentro» la famiglia, studiandola come collezione di individui che iniziano a lavorare insieme.

 

Voi abbracciate questa seconda ipotesi?

 

Ci poniamo in continuità con questo approccio, non perché sia più o meno desiderabile dal punto di vista delle preferenze individuali, ma perché ci sembra che sia un modo più giusto per analizzare la famiglia. Senza per questo togliere nulla al fatto che la famiglia è e rimane un’istituzione utilissima. Ma partiamo dai fatti. Gli italiani hanno scelto di vivere in famiglia in un certo modo. Noi diciamo: questo modo di essere famiglia non ha solo elementi positivi, ma presenta anche diversi problemi sui quali val la pena di riflettere. Ecco, L’Italia fatta in casa vuole essere un contributo a questo.

 

Torniamo dunque alla famiglia italiana come perno del nostro sistema di welfare.

 

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Noi non diciamo, semplicisticamente, che la famiglia è la causa della scarsa produttività in Italia. Rileviamo che le preferenze degli italiani per questa intensità di legami familiari hanno disegnato un contesto coerente di istituzioni e di rapporti economici che, nel suo insieme strutturato e complesso, determina una scarsa produttività. Non è la famiglia la sola causa; ma di sicuro il sistema che ci siamo scelti, di cui la famiglia è un «ingranaggio» importante, determina questa situazione. Ad esempio questi legami individuali riducono il potere contrattuale delle persone, perché le tengono legate al nucleo familiare.

 

In altre parole, professore?

 

Le imprese di Firenze, se sanno che valuto la famiglia un valore tale per cui mi conviene rimanere vicino a casa piuttosto che provare a cercar lavoro a Milano o a Pisa o a Monaco, potranno trattarmi peggio, darmi un salario inferiore, ben sapendo che io non me ne andrò. In una società che si è completamente trasformata rispetto a quella di appena dieci anni fa, chi avrà più potere contrattuale? Chi può e vuole spostarsi o chi sta fermo?

 

Un’altra accusa è che nel vostro approccio la famiglia viene letta attraverso le lenti deformanti del reddito e del mercato. Che ne pensa?

 

Restituisco al mittente l’accusa di «monetizzare» la famiglia in ossequio a principi unilaterali di tipo economicistico. Non ci siamo fatti trarre in inganno dalla tentazione, o dal presupposto, di dare un valore «solo economico» ai legami familiari. E sappiamo bene che non tutti valori sono monetizzabili, ci mancherebbe. Cobianchi, esponendo quella che dovrebbe essere la nostra tesi, dice: la famiglia italiana contribuisce poco alla crescita economica del paese. Da cui, parallelamente, la parzialità dell’analisi e l’opzione per il mercato a discapito della famiglia. Ma noi non diciamo affatto che la famiglia contribuisce poco alla crescita; diciamo che contribuisce poco alla crescita ufficiale, a quella registrata dalle statistiche. Siamo noi a mostrare che l’economia familiare parallela vale almeno quanto quella ufficiale di mercato. Se aggiungessimo al prodotto ufficiale di mercato il prodotto familiare che misuriamo nel libro, raddoppieremmo il Pil. Le famiglie producono moltissimo. Dobbiamo solo chiederci se sia possibile ottenere livelli analoghi di produzione familiare, o non troppo inferiori, eliminando le distorsioni che il nostro libro rileva.

 

Il Pil è l’unica misura del benessere?

 

Il Pil non è chiaramente una misura della felicità. Però è strettamente correlato con tanti fattori che contribuiscono alla felicità e al benessere. La felicità non la so misurare, il Pil posso misurarlo. Penso che misurare il contributo della famiglia in termini di Pil non sia svalutare la famiglia, ma il primo tentativo di dare un valore ad un fattore, la famiglia, che produce reddito e quindi anche felicità e benessere.

 

Ma allora qual è il punto?

 

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Il punto è se questo equilibrio tra produzione ufficiale e produzione familiare parallela va bene o no, cioè se non sarebbe meglio che producessimo un po’ meno in famiglia e un po’ più nel mercato.

 

Lei cosa pensa dell’introduzione del quoziente familiare?

 

Il quoziente familiare favorisce l’equità tra le famiglie, ma a scapito dell’equità tra i membri di sesso diverso all’interno di esse. Quindi è vero che col quoziente trattiamo fiscalmente in modo più equo le famiglie prese come unità, però, tassando col quoziente solo il reddito familiare, finiamo per aumentare l’aliquota marginale della persona che all’interno della famiglia guadagna di meno. E guarda caso è la donna.

 

Può fare un esempio?

 

Consideriamo una famiglia con due membri: uno con reddito 75 e un altro con reddito 25. Il quoziente prevede un’aliquota per entrambi corrispondente ad un reddito di 50. Ma questo cosa comporta? Che per via della progressività della tassazione, la persona che guadagna di meno si ritrova – vista come singolo individuo – ad avere un’aliquota fiscale marginale molto più alta di quella che avrebbe avuto se fosse stata tassata come singolo. Siccome tipicamente sono le donne a trovarsi in questa situazione, col quoziente familiare privilegiamo la famiglia a scapito della donna.

 

Ma è meglio il quoziente familiare o la tassazione standardizzata?

 

Dipende che cosa vogliamo privilegiare: le famiglie, o l’equità tra i membri all’interno di una famiglia? Vedo però già l’accusa dietro l’angolo. Nella famiglia non sempre usiamo criteri di mercato per dividere la «torta» prodotta dalla famiglia. Diamo ai figli non in base a ciò che producono ma in base ai bisogni. Se la penso così – lei mi dirà – dovrei essere a favore del quoziente familiare, che fa esattamente questo.

 

Glie lo dico. Non è una contraddizione?

 

Sì, ma solo in apparenza. Perché lo Stato deve anche preoccuparsi degli individui, e della possibilità che per via di questo particolare regime familiare si finisca per fare un danno alla società nel suo complesso. Pensi ad un sistema in cui le donne lavorano meno e gli uomini invece moltissimo. Certamente non farebbe bene ai figli, perché non vedrebbero mai i padri. E allora? Gli stessi cattolici parlano di difesa dei figli all’interno della famiglia. Il quoziente va benissimo, però ha questo difetto: la donna ne rimane potenzialmente danneggiata (qualora volesse lavorare di più e qualora fosse un bene per la società che lei lavorasse di più), a vantaggio di un altro beneficio. Occorre decidere cosa si vuole.

 

Le donne sono incentivate dal sistema a restare in famiglia. Si tratta di invertite questa tendenza consolidata, diminuendo i vincoli familiari, oppure di introdurre più libertà di scelta?

 

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Secondo noi il problema è proprio questo, cioè di avere la possibilità di scegliere. Attualmente riteniamo che questa libertà di scegliere non ci sia, perché è molto più costoso per una donna anziché per un uomo andare a lavorare. Se la società italiana fosse fatta al 50 per cento da famiglie in cui l’uomo lavora e la donna sta a casa, e al restante 50 per cento da famiglie in cui la donna lavora e l’uomo sta a casa, diremmo che ognuno sceglie come vuole e che non c’è alcuna discriminazione. Ma nel nostro caso non è così, perché nel 100 per cento delle famiglie la specializzazione è che l’uomo lavora mentre la donna può non lavorare o lavorare di meno.

 

È un sistema che funziona male?

 

Cambio la domanda: non dobbiamo piuttosto chiederci se corrisponde davvero alle preferenze dei singoli? Ma c’è anche un interesse del paese a non sprecare risorse di donne che potrebbero essere ottime professioniste. Ecco perché dobbiamo chiederci se non sia il caso di consentire una maggiore possibilità di carriera alle donne che lo vogliono. Allora però, poiché non è possibile che le donne oltre a esser motore della casa siano anche motore del mercato, bisogna che gli uomini lavorino di meno fuori casa. Ecco perché l’ipotesi del riequilibrio è fondata.

 

Voi sostenete che non è giusto costruire nuovi asili nido perché graverebbero sulla fiscalità generale. Lo stesso discorso vale per la sanità, che grava anche sulle tasse pagate dalle persone sane?

 

Ottima domanda. Dobbiamo però capire se c’è un interesse pubblico ad avere quel servizio pagato dalla fiscalità generale. Prendiamo la scuola elementare: qui è evidente che deve essere pagata dalla fiscalità generale, perché c’è un interesse collettivo a che tutti i membri del paese abbiano una certa istruzione. Ed è un interesse generale che tutti possano essere curati, per  impedire che alcuni muoiano agli angoli delle strade per non essere riusciti a pagarsi l’assicurazione. Ma nel caso degli asili nido la cosa mi pare molto meno ovvia, essendo le preferenze delle persone in proposito molto diversificate. Però la nostra posizione non è così tranchant. In realtà il punto è questo: non sono gli asili nido a risolvere il problema delle differenze di genere, perché se è la donna a dover andare a prendere i bambini alle quattro del pomeriggio, non potrà comunque mai fare carriera.

 

Dite in sostanza che gli asili non servono per risolvere i problemi delle carriere delle donne.

 

Esatto. Se ci fossero prove evidenti che servono al bene dei bambini nell’interesse collettivo, allora nessuna obiezione a finanziarli con la fiscalità generale. Ma non attendiamoci che risolvano i problemi del lavoro femminile se prima non abbiamo riequilibrato i compiti in famiglia.

 

(Federico Ferraù)

 

 

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