Il termine ristrutturazione applicato a un’azienda ha avuto una diffusione esponenziale da quando è cominciata la crisi che ha messo in ginocchio i fatturati della maggior parte delle aziende. Ciò ha portato molti amministratori a ricorrere a un aumento del debito con le banche per far fronte al pagamento dei crediti. Le banche, dal canto loro, per ristrutturare il proprio debito si sono rivolte ai governi centrali. L’ultimo anello della catena è rappresentato dai cittadini, chiamati dagli Stati a risanare i debiti con l’aumento dei consumi e il pagamento delle imposte.



«Per uno studio legale, naturalmente, la pratica del restructuring del debito non è una novità, certo la natura della crisi ha imposto a molte aziende, attraverso processi di ristrutturazione, di rivedere la propria capacità produttiva». È questa l’analisi con cui Paolo Sciumé, esperto di ristrutturazioni societarie e membro del Cda di importanti aziende italiane, chiude il cerchio sul restructuring. «Su questo tema i fattori in gioco sono tre: l’imprenditore, il team di consulenti da lui chiamato a supportarlo in questo processo e il sistema bancario – aggiunge Sciumé, titolare dello studio legale Sciumé & Associati che da anni si occupa di affiancare gli imprenditori nel settore del diritto d’impresa. È essenziale per risolvere la situazione il riequilibrio della situazione finanziaria e la possibilità di rimanere sul mercato».



L’intervista, raccolta da Concetta Gaggiano, è stata pubblicata su Giustizia, Anno IV, n° 1 febbraio 2010.

 

Come si è arrivati alla situazione odierna in cui la maggior parte delle aziende deve ricorrere a una ristrutturazione?

Un primo scenario che va tenuto presente riguarda la natura della crisi che investe tuttora l’economia, la cui origine riguarda la finanza. In questi anni si è creduto che la produzione di ricchezza potesse essere moltiplicata tramite l’immissione sul mercato di strumenti finanziari che avessero una loro autonomia, che potessero loro stessi produrre ricchezza. Ciò ha portato il settore finanziario ad allontanarsi dalla produzione diretta di beni e servizi, come se quegli strumenti finanziari potessero vantare autonomia economica. Questa situazione ha generato una congestione di beni e servizi sul mercato e la conseguente crisi produttiva di molte imprese.



 

Perché nasce all’interno di un’azienda l’esigenza di ristrutturarsi?

Accade per i debiti nei confronti del sistema creditizio, ma non solo. In passato è capitato anche per i portatori di corporate bond, strumenti oggi così prepotentemente tornati in auge, di trovarsi a dover far fronte a emittenti non più in grado di adempiere, almeno alle condizioni inizialmente pattuite, alle obbligazioni assunte. Detto questo, è certamente vero che da un anno e mezzo a questa parte, le imprese si sono spesso trovate in situazioni di particolare affanno nella gestione della finanza e, quindi, nella necessità di ristrutturare i propri debiti. Effettivamente il trend (negativo) potrebbe proseguire per l’anno appena iniziato.

 

Come si è intervenuti per far fronte a questa situazione?

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Attraverso l’azione di tre attori principali. Innanzitutto sono intervenuti gli Stati, soprattutto quelli occidentali. I governi centrali sono intervenuti da un lato per salvare le grandi imprese, dall’altro per salvare il sistema bancario, aumentando il loro indebitamento. Ma questo ha generato e genera un terzo passaggio: lo Stato non può che rivolgersi ai cittadini per risanare i debiti. La collettività, quindi, per far fronte a questa situazione, deve diventare capace di risparmiare, sostenere il mercato aumentando i consumi e pagando le tasse. Come? Attraverso la sua capacità imprenditoriale. Questi elementi rendono inevitabile rivedere, attraverso le ristrutturazioni, la capacità con cui si produce.

 

Quali sono i fattori in gioco all’interno dei processi di ristrutturazione?

 

Sono essenzialmente tre. L’imprenditore con la sua propensione al rischio, di ricorrere al denaro di terzi, del sistema bancario soprattutto, e la sua capacità di sapersi organizzare; il sistema bancario quale fornitore di denaro. In questa direzione diventa fondamentale il dialogo tra le parti poiché in molti casi le ristrutturazioni richiedono tempi lunghi, quindi sono necessarie una burocrazia meno gerarchizzata e una maggiore attenzione alle esigenze del territorio in cui operano le imprese. Per questo motivo, spesso, le piccole banche di natura territoriale sanno far fronte in maniera più adeguata ai problemi degli imprenditori per via di un rapporto più stretto e diretto con i loro interlocutori. Il terzo elemento riguarda quegli attori (consulenti d’impresa, avvocati e commercialisti) che supportano l’imprenditore nelle fasi di ristrutturazione. Si tratta, quindi, di un gioco a tre tra il sistema bancario, che deve rivedere e consolidare i propri utili; l’imprenditore, che deve risanare la propria azienda rendendola competitiva e risanarne il fatturato; chi fornisce servizi di consulenza, che ha il ruolo di accompagnare l’azienda durante questo passaggio di risanamento, apportando un valore aggiunto in termini di organizzazione aziendale.

 

Ci sono settori che più di altri vedono imprese coinvolte in operazioni di ristrutturazione?

 

Intanto già la parola ristrutturazione riguarda quelle imprese che hanno la capacità di essere presenti sul mercato, quindi quelle realtà che hanno capacità tecnologica e strumentale di stare sul mercato. Per questo motivo, alcuni settori sono più interessati di altri: quelli legati alla produzione di beni riguardanti il made in Italy, come il design e il manifatturiero. Penso ad esempio al settore orafo o quello ceramico, realtà che in passato sono state capaci di esportare il marchio italiano in tutto il mondo, ma che adesso si trovano a rivedere la propria organizzazione per poter essere dei player primari sui mercati. Altri settori interessati sono poi quelli che forniscono servizi tecnologici alle imprese, quelli di produzione di macchinari e, infine, il settore della produzioni di servizi pubblici.

 

Ci sono delle differenze tra la legislazione italiana e quelle straniere?

 

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La legge italiana non è più quella che, come succedeva in passato, condanna eticamente il fallimento di un imprenditore; oggi la visione è più quella anglosassone, che vede la ristrutturazione come “passaggio” da uno stato all’altro, quindi le norme prevedono oggi di poter salvare di un’impresa, una volta entrata in uno stato di crisi, quello che di buono ha potuto esprimere. In questo senso direi che i sistemi normativi dei vari paesi stranieri si equivalgono. Gli istituti maggiormente utilizzati sono certamente quello del concordato preventivo, che dopo la riforma del 2005 rappresenta uno strumento molto più flessibile e al quale può accedere una più vasta platea di imprenditori in crisi. Inoltre, soprattutto là dove la ristrutturazione passa attraverso la messa a disposizione di nuove risorse finanziarie da parte di banche o terzi, noto un ampio ricorso a convenzioni poste in essere in esecuzione di piani di ristrutturazione attestati a norma dell’articolo 67 LF. Sotto questo profilo ritorna quel che si diceva poco fa: il piano che, secondo la lettera della norma, deve apparire “idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria” e la cui ragionevolezza sia attestata da un professionista revisore contabile è lo strumento che potrebbe, anzi dovrebbe, rivelarsi un opportunità per l’imprenditore in crisi.

 

La «variabile umana» nel processo di cambiamento è la più imprevedibile, ma, al tempo stesso, può determinarne il successo o il fallimento. Quanto la gestione del fattore umano incide nei processi di ristrutturazione aziendale?

 

È importante poiché tocca la riduzione dei costi e del costo del lavoro (ove si ricorre a forme di flessibilità, di recupero di efficienza e, come abbiamo visto capitare in misura massiccia, agli ammortizzatori sociali) o dal punto di vista del costo di materie prime e servizi, ove la qualità della produzione è connessa alla capacità di sollecitare la partecipazione dei propri dipendenti, di far condividere ai propri dipendenti lo scopo per cui si produce un determinato bene o servizio. Oggi c’è bisogno, sia nel settore pubblico che in quello privato, di dotarsi di strumenti per poter “misurare” la capacità di servizio del fattore umano e renderlo efficiente in direzione di una razionalizzazione delle risorse e della possibilità di poter rimanere sul mercato.

 

(Concetta S. Gaggiano)

Pubblicato su Giustizia, Anno IV, n° 1 febbraio 2010