“Ma l’Italia non rischia di essere per i mercati un problema ben più grave della Grecia?”. Titola così il Financial Times un intervento di Michael Dicks, capo economista di Barclays Wealth, pubblicato, forse non a caso, il 17 marzo, nel bel mezzo di un aspro dibattito sulle riforme dei mercati finanziari che divide l’area euro dal blocco anglosassone sulle due rive dell’Atlantico.



Il commento è arrivato sui tavoli dell’Europarlamento proprio prima dell’inizio dell’audizione di Mario Draghi, intervenuto a Strasburgo in qualità di presidente del Financial Stability Board, ovvero il comitato chiamato a definire le regole sui mercati finanziari, e in particolare sui requisiti di capitale delle banche.



Di qui il sospetto che la Bibbia della City abbia voluto ricordare che Draghi rappresenta un Paese debole, forse l’anello che potrebbe mettere in ginocchio l’euro. Opinione che, tra l’altro, viene condivisa anche dalla Bundesbank che non fa mistero di non gradire un italiano, per bravo che sia, ai vertici della Bce. Certo, l’eccesso di dietrologia può far travisare la realtà. Ma, d’altro canto, a pensar male, non si fa certo peccato.

In ogni caso, questa cornice aiuta a capire la cautela del governatore che ha sottolineato, davanti agli europarlamentari, che «la ripresa è disomogenea, debole in Europa, ancora fragile ovunque». Non è il caso, insomma, di abbassare la guardia o, peggio ancora, di dividersi sul fronte delle regole della finanza.



Non dimentichiamo, è il messaggio di Draghi, che la più grave crisi del dopoguerra è scoppiata sul fronte delle banche, oggi convalescenti ma tutt’altro che al riparo da un’eventuale “double dip”, ovvero da una ricaduta che (insegna la crisi del 1937) potrebbe essere più grave del primo collasso, trascinando di nuovo l’economia reale nel baratro. «Abbiamo fatto molta strada dall’inizio della crisi per rafforzare il sistema finanziario, ma abbiamo ancora un duro lavoro da fare avanti a noi», ha ammonito Draghi, sottolineando che «è essenziale poter contare su una piena ripresa del sistema bancario».

Molto di più il presidente del FSB non poteva dire, anche solo per non compromettere la tela del compromesso tra le due anime del capitalismo occidentale, in un momento cruciale, quando occorre grande diplomazia per superare “le resistenze” verso le nuove regole, soprattutto in riferimento al principio del “too big to fail” (“troppo grandi per fallire”).

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Per giunta, la sorte ha voluto che proprio ieri dal tribunale di Milano arrivasse la notizia del rinvio a giudizio con l’imputazione di truffa aggravata per quatto banche internazionali “colpevoli” di aver venduto uno swap trentennale al Comune meneghino che si sono rivelati un pessimo affare: è la prima volta che capita, il che suona a ulteriore conferma della distanza che separa il mondo delle banche d’affari dagli umori dell’opinione pubblica di Eurolandia, come dimostra il nulla di fatto al vertice europeo sul fronte degli hedge funds.

 

Non è passata, almeno per ora, la richiesta di regolamentare i gestori speculativi, portata avanti con tenacia da Poul Nyrup Rasmussen, il presidente dei socialisti, con il consenso della Francia e di altri partner Ue, tra l’altro inferociti con Goldman Sachs per il ruolo giocato dal colosso Usa nella speculazione sui Cds che hanno messo in ginocchio la Grecia. Ma il dissidio con il Regno Unito, che teme l’esodo degli hedge da Londra, è tutt’altro che superato.

 

Per non parlare delle tensioni con gli Usa dove, per ora, si è molto parlato, ma si è fatto ben poco per ridurre il raggio d’azione delle grandi istituzioni finanziarie e dell’universo di hedge che ruota attorno alle grandi banche d’affari che si finanziano a tassi superconvenienti sul mercato (o presso la Fed). Ed è facile prevedere che l’atteggiamento americano non cambierà di sicuro nel prossimo futuro. Anzi, a fine mese finiranno gli acquisti da parte della Fed di titoli tossici legati al mercato immobiliare Usa, un test decisivo per valutare il recupero del mercato finanziario, che molti giudicano ancora drogato dalle iniezioni di denaro da parte di Washington.

 

Il “siluro” contro l’Italia lanciato dalle colonne del FT va inserito all’interno di questo braccio di ferro, che minaccia di inasprirsi nelle prossime settimane anche perché destinato a sovrapporsi con l’altra grande contesa (ancor più grande) che separa gli Usa dalla Cina, accusata di far dumping grazie a uno yuan artificialmente debole.

 

Perché prendersela con l’Italia, nonostante il giudizio positivo delle agenzie di rating? Perché, spiega Dicks, la fragilità finanziaria di un Paese è solo la risultante della situazione dell’economia reale. Se si va a misurare lo stato di salute dell’Azienda Italia si scopre che dal 1995, quando l’industria di casa nostra poteva contare sul propellente della lira debole, la competitività della Penisola è drammaticamente peggiorata rispetto alla Germania, il primo partner commerciale: 15 anni fa il costo del lavoro per unità di prodotto italiano era il 60% di quello tedesco; oggi, al contrario il clup italiano è superiore del 30% a quello della Repubblica Federale. Nello stesso periodo l’export da Monaco e Stoccarda verso l’Italia è cresciuto del 70%, quello italiano verso la Germania solo del 30%.

 

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Il messaggio è chiaro: dieci anni dopo la nascita dell’euro i nodi stanno venendo al pettine. Una comunità finanziaria basata sull’unità valutaria ma senza aver riequilibrato i flussi dell’economia reale rischia di finir vittima delle sue tensioni interne che, con il tempo, hanno accumulato pericolose crepe, pronte a manifestarsi alla prima scossa sui mercati.

 

Attenzione, alla City: cresce la legione dei traders pronti ad approfittare della situazione, soprattutto se Eurolandia sceglierà ancora la linea dura. Esiste un’alternativa al conflitto? Giulio Tremonti, a Bruxelles, ha ripetuto che un’economia votata all’export come quella tedesca è più fragile di quel che non appaia a prima vista. Certo, non si può chiedere alla panzer-economia di rinunciare ai suoi colossi a quattro ruote. Ma un progetto europeo basato su più investimenti e consumi a Sud, a lungo andare, potrebbe esser la medicina giusta anche per la Germania.