Lo scriviamo da settimane su ilsussidiario.net, ieri è accaduto: dopo la pubblicazione di un sondaggio sul Sunday Times in base al quale il vantaggio dei Conservatori britannici sul Labour si sarebbe ridotto a soli due punti a due mesi dal voto, la sterlina è crollata. Quel dato, infatti, è stato giustamente letto dagli investitori internazionali come l’impossibilità di ottenere una maggioranza qualificata a governare alle prossime elezioni e quindi il cosiddetto hung parliament, ovvero un governo di minoranza e di coalizione che, allo stato dell’arte, vedrebbe ancora il Labour di Gordon Brown e soci chiamato a guidare il paese e soprattutto a mettere mano al guaio del deficit – desinato a raggiungere il 12% del Pil – ormai fuori controllo.



Conseguenza, il pound ha preso una china molto simile a quella di diciotto anni fa e del Black Wednesday. «Il sondaggio del Sunday Times – ha dichiarato Hans-Guenter Redeker, capo delle strategie monetarie di Bnp Paribas – ci ha chiaramente indicato che le urne manterranno questo governo ancora per qualche anno e i mercati hanno reagito con un voto di sfiducia verso Gordon Brown». Il dato di ieri è il peggiore da un anno rispetto al dollaro e, se come pare scontato, l’outlook di Morgan Stanely ci avrà visto giusto entro aprile la sterlina è destinata a scendere a un cambio di 0,95 verso l’euro.



Evviva, Sua Maestà avrà certamente dei seri grattacapi in vista. Certo, farebbe volentieri a cambio con Barack Obama, i cui guai con l’economia dei vari Stati degli Usa peggiorano di giorno in giorno. Partiamo dallo Stato più caro, insieme alle Hawaii, al presidente, l’Illinois. Il quale, infatti, è alle soglie della bancarotta con un buco di bilancio di 13 miliardi di dollari su un budget complessivo di 28: dal mese di ottobre in poi, i conti dello Stato sono stati pagati con voucher assenti di copertura, sorte di assegni scoperti che prima o poi – molto prima che poi – andranno comunque all’incasso come voce di spesa, ovvero come deficit statale.



In Illinois, non in un remoto Stato dell’Est europeo, gli insegnanti non sono pagati e stanno per prepararsi a licenziamenti di massa, le biblioteche hanno istituito un terzo giorno di chiusura settimanale per risparmiare sui costi e le scuole stanno meditando di fare altrettanto. Nella contea di Alexander, la macchina dello sceriffo è stata pignorata: e non è una leggenda metropolitana. Ma l’Illinois è solo la punta di un iceberg ben più grande: Florida, Michigan, Pennsylvania, Stato di New York, Arizona, Michigan e California seguono a ruota con la stessa prospettiva di crisi globale.

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Per il 2010 i buchi cui andranno incontro i vari Stati è stato valutato in 170 miliardi di dollari dall’Economic Policy Institute, peccato che per molti di loro sia vietato dalla legge federale l’accumulazione di debito: o rientrano o vanno in bancarotta. Questo è ciò che ci attenderà nel biennio 2010-2012, una globale stretta della cinghia. In Lituania la contrazione dell’economia si attesterà al 30% e molti altri Stati come Ungheria, Ucraina e i paesi Baltici sono già al collasso: tagliare ulteriormente è impossibile, pena il rischio di rivolte violente, ma i buchi sono troppo grandi e i soldi del Fondo Monetario sono già andati esauriti.

 

Ecco il frutto amaro delle politiche di finanziamento e salvataggio a pioggia dell’ultimo anno e mezzo, una messe di interessi da pagare che andranno ad accumularsi creando una vera e propria montagna di debito. Spesso, inesigibile. Ne sa qualcosa la Germania con l’esposizione verso la Grecia.

 

Occorrono – e subito – interventi fiscali da parte delle banche centrali per evitare una deflazione da debito, ma non sembra che le autorità abbiano ben capito la gravità di quanto sta accadendo: i prestiti bancari si sono contratti del 14% negli Usa dall’inizio dell’anno, soprattutto a causa delle cosiddetta Basilea III e la sua necessità di incrementare i ratio di capitale per gli istituti bancari. La massa monetaria M3 è scesa del 6% da settembre e in Europa le cose vanno anche peggio: la contrazione del credito bancario nell’eurozona è stata del 2,7% solo nel mese di gennaio mentre la massa monetaria M3 è crollata di altri 55 miliardi di euro.

 

Porterà male dirlo ma questi sono segnali chiari: che ci rimandano, dritti dritti, alla situazione del 1931. Siamo in piena prospettiva da double dip recession, ovvero la tanto temuta recessione a w quando tutti i profeti dell’ottimismo prospettavano una fase di discesa e poi una risalita rapida, ovvero l’ipotesi di crisi a v. Ora, verrebbe da chiedere a uno di questi vati, il capo della Fed, Ben Bernanke, cosa intende fare visto che nel 2002 fu protagonista di un memorabile discorso dal titolo “Deflazione: come essere certi che non accada qui”, con chiaro riferimento alla crisi giapponese.

 

Beh, ora la situazione Usa è drammaticamente simile a quella di quei giorni a Tokyo, peccato che nel 2002 Bernanke si disse certo e determinato nel porre in essere politiche di quantitative easing, ovvero stampare moneta da pompare nel sistema, pur di evitare lo spettro deflattivo mentre oggi nega la necessità di quell’intervento. Che, come tutte le scelte emergenziali da parte di Stati e banche centrali, fa male al mercato ma in situazione limite come quella attuale sono un antibiotico sgradevole da ingurgitare ma necessario: ora serve il quantitative easing, non prima e accompagnato da denaro a pioggia finito di fatto nel portafogli di investimento delle banche.

 

Perché Bernanke neghi e dica no è presto detto: Pechino ha detto no e posto il veto poiché teme che questo possa potenzialmente portare a un default dei debiti del Tesoro Usa, di cui il dragone detiene miliardi di dollari. Siamo molto vicini a finire nelle sabbie mobili della deflazione se Usa, Europa e Giappone non decideranno di muoversi, magari non congiuntamente ma nella stessa direzione: il tempo, oramai, comincia davvero a scarseggiare e i dati illustrati fino a qui parlano chiaro. E i prossimi sviluppi della relativamente “piccola” situazione greca ce lo dimostreranno.

 

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«Ho chiesto al governo greco di annunciare nei prossimi giorni nuove misure», così si è infatti espresso ieri il Commissario europeo all’Economia Olli Rehn, al termine del suo incontro ad Atene con il premier ellenico, Georgios Papandreou, per discutere – secondo quanto ha annunciato una nota della Commissione – «l’attuale situazione economica greca e lo stato delle finanze pubbliche». Prima dell’incontro fra Papandreu e Rehn si era tenuta una seduta del gabinetto ristretto del governo greco, probabilmente destinata a definire le misure di austerità richieste dai partner europei per abbattere il deficit del bilancio pubblico ellenico, balzato nel 2009 al 12,7% del Pil.

 

Ovviamente a metà giornata erano in netto rialzo (fra il 2% e il 3%) tutti gli indici della Borsa di Atene, testimoniando la fiducia degli investitori per i risultati della visita di Rehn: fiducia che rafforza la convinzione che sia vicina la definizione di un intervento internazionale da 25 miliardi di euro, finanziato da istituti pubblici come il KfW tedesco e la Caisse des Depots francese, i nuovi padroni della Grecia in attesa di conquistare l’egemonia in Europa dopo aver fatto fuori la disastrata Gran Bretagna.

 

Fra le misure più urgenti, emerse dopo la missione compiuta la scorsa settimana da esperti della Bce e del Fondo Monetario Internazionale, l’aumento dell’età pensionistica a 67 anni, il congelamento degli stipendi pubblici fino al 2012, l’aumento delle tasse e il taglio della quattordicesima mensilità. Tanti auguri a chi dovrà gestire l’ordine pubblico in Grecia nelle prossime settimane e mesi: Parigi e Berlino operano esattamente come Ben Bernanke, unicamente per loro tornaconto. Cominciamo a pensarci.

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