Spiace dirlo, perché l’autoreferenzialità è sempre sgradevole, ma ci abbiamo preso un’altra volta. Finita la luna di miele interessata delle scorse settimane, il trio più bello del mondo fa volare gli stracci. La Francia accusa pesantemente la Germania, la invita a fare leva sulla spesa, la Germania dice no al ventilato piano di salvataggio europeo per la Grecia spalancando le porte all’intervento del Fmi, ovvero scaricando su Usa, Russia, Cina e compagnia cantante il salvataggio dell’economia ellenica e Atene, vistasi sedotta e abbandonata, lascia la diplomazia e dice la verità: la Germania ha speculato sulla nostra crisi.
A dirlo, nel silenzio generale dell’informazione, è stato il vice premier greco, Theodors Pangalos, secondo cui Berlino «sta permettendo alle sue banche di dar vita a un deplorevole gioco speculativo contro il nostro paese mentre l’intera economia tedesca giova di questa instabilità, grazie a un euro più debole che facilità l’export». Esattamente ciò che diciamo, con tanto di grafici sull’andamento dei cds a dimostrarlo, da almeno dieci giorni.
Atene non poteva dire niente, perché non voleva pestare i calli al nuovo monarca europeo e suo potenziale salvatore: ora che la Merkel ha posto il suo niet al denaro comunitario per salvare la Grecia, ergendo l’articolo 125 dei trattati europei a dogma, allora la verità viene a galla. E il meglio deve ancora arrivare. Come anticipato, l’euro grazie ai giochini di Berlino, l’altro giorno ha toccato il minimo contro il franco svizzero, un picco al ribasso che potrebbe essere solo l’inizio di quell’aggiustamento al ribasso invocato in ambienti anglosassoni, secondo cui la divisa europea è attualmente sopravvalutata del 30%.
Ma cosa significhi tutto questo, a parte la nostra giusta intuizione rispetto alla volontà egemonica della Germania, è presto detto. Già anni addietro, al momento dell’introduzione dell’euro, la Banca Nazionale Svizzera aveva comunicato che non avrebbe consentito un eccessivo apprezzamento del franco per evitare che l’economia del paese (fortemente interconnessa, in termini di scambio commerciale, con quella dell’Unione europea) potesse perdere di competitività.
Tale politica di mantenimento di un sostanziale aggancio del franco all’euro (in termini reali, cioè corretti per il differenziale inflazionistico), implica la potenziale perdita di controllo degli aggregati monetari, come mostra l’andamento nel corso degli ultimi anni – fino all’esplosione della crisi globale – della massa monetaria M1. Ma c’è di più. Il franco svizzero, nel tempo, è stato utilizzato come veicolo di carry trade nelle operazioni finanziarie internazionali: questa operazione prevede l’indebitamento in una valuta a basso tasso d’interesse, stabile o suscettibile di tendenziale deprezzamento e l’investimento del ricavato in una valuta ad alto rendimento e stabile o suscettibile di apprezzamento.
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Nel caso svizzero le condizioni di stabilità monetaria e basso rendimento hanno originato una ingente erogazione di prestiti a privati e imprese dei paesi dell’Est europeo. In paesi come Polonia, Ungheria e Croazia, il franco svizzero è pertanto divenuto, di fatto, la valuta corrente, la divisa nazionale: migliaia di famiglie e piccole imprese si sono indebitate in franchi svizzeri anziché nella divisa nazionale, contando sull’apprezzamento di quest’ultima rispetto all’euro e sulla stabilità del cambio tra la moneta unica europea e il franco svizzero, che malgrado ciò ha sempre avuto tassi inferiori (e non allineati) a quelli dell’euro.
In Ungheria, ad esempio, il 31% dei prestiti sono denominati nella divisa elvetica, proporzione che balza addirittura al 60% per i finanziamenti alle famiglie. Cosa significhi questo scenario, è anche in questo caso presto detto: la chiave della crisi e dei tentativi sovrani dei governi di sfuggire alla terza ondata, quella del debito, in questo momento è quella valutaria. Pensateci un attimo. Abbiamo visto prima scendere il dollaro per i tassi a zero e i conseguenti carry-trades, poi l’euro per il timore sulla Grecia e infine la sterlina per i cosiddetti “attacchi speculativi” legati al debito pubblico alle stelle e al timore di una maggioranza monca alle elezioni del prossimo 6 maggio.
Nessuna forza politica, nei fatti, si è alzata a difesa della propria moneta, in nessuno dei tre casi: per tutti è valso il ragionamento in base al quale una moneta più debole aiuta l’export. E qui, arriviamo al caso prima enunciato. Persino la Svizzera, infatti, ha tentato di tenere debole il franco e il Giappone cerca di evitare in tutti i modi la rivalutazione dello yen, soprattutto contro il dollaro: tutti vorrebbero che fosse la Cina a rivalutare la sua moneta, lo yuan ma il cambio dello yuan non è trattato sui mercati, è fissato in base a un peg.
Il rischio, ora, è quello della punizione classica per chi svaluta: l’inflazione. Prendiamo il Regno Unito: dai massimi del 2007, la sterlina ha perso contro euro e dollaro tra il 25% e il 30% del suo valore, tutto ciò che verrà importato costerà dunque di più a partire dalle materie prime fino a giungere, alla fine del processo, ai prezzi dei prodotti finiti. Un altro effetto collaterale della svalutazione normalmente è quello di dover riconoscere interessi crescenti ai propri creditori, visto che tali crediti hanno perso valore: ma, ad esempio, i titoli di Stato inglesi decennali continuano a rendere intorno al 4%.
La Germania punta a questo, portando così il carrozzone comunitario verso un testacoda fatale: la condizione generale dei Paesi occidentali è oggi, infatti, di forte dipendenza dai capitali esteri per il sostegno del loro debito e questo giochino di svalutazioni per spingere la ripresa attraverso l’export può diventare molto caro, potenzialmente suicida, visto che quando la crisi tornerà a mordere il mercato diventerà più selettivo e avere una valuta forte sarà un vantaggio e non una iattura.
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Ma andatelo a dire ai tedeschi, che del rischio inflattivo sono consci ma ancor di più del potenziale devastante di un possibile default greco, il cui impatto nell’eurozona equivarrebbe al combinato di quelli argentino e russo avvenuti in passato. I falchi a Berlino, almeno a mio avviso, stanno cercando di accelerare questa crisi affinché raggiunga in fretta il picco, temendo come la morte una dilatazione dei tempi.
Lo ha detto, chiaro e tondo Jurgen Stark, rappresentante tedesco alla Bce. Insomma, Berlino vuole imporre ad Atene una cura in stile Fmi, una stretta fiscale del 10% sul Pil ma senza ottenere come contropartita i soldi del Fmi e nemmeno dell’Europa: per quanto abbiano fatto pasticci su pasticci, forse ora i greci hanno qualche ragione per cui essere arrabbiati con i tedeschi, a parte la sgradevole parentesi della Seconda Guerra Mondiale e la conseguente occupazione. Il problema è che o l’Europa interviene o la Grecia dovrà davvero andare con il cappello in mano al Fmi, pena il default.
Peccato che anche l’opzione del Fondo Monetario Internazionale non sia affatto risolutiva. Il massimo che questo può erogare ad Atene, stando a quanto fatto finora con altri paesi, è di 15 miliardi di euro, insufficienti a risolvere i problemi che la Grecia deve chiudere entro giugno con il rifinanziamento. Non potendo svalutare la moneta nazionale, cura classica chiesta dal Fmi al paesi in crisi, poiché all’interno dell’eurozona, Atene rischia davvero grosso ora.
La Germania nel frattempo ringrazia: le sue disastrate banche fanno soldi coi cds greci che Merkel e soci, a parole, vorrebbero vietare, l’export gode dell’euro più debole grazie al terrorismo politico sul salvataggio che fa oscillare gli spreads e i cambi e, in chiave politica, si sfrutta il momento per modellare la futura Unione su misura per le necessità nazionali.
Gli altri paesi, esclusi Grecia e Francia, tacciono e assistono: per quanto non si sa, il Titanic europeo infatti comincia a inclinarsi pesantemente su un lato, spinto dalle pressioni tedesche. A Berlino hanno un’unica missione: accaparrarsi le scialuppe di salvataggio.