Quando si tratta di difendere il loro bread and butter gli anglosassoni perdono il tradizionale aplomb, quel distaccato pragmatismo che teorizzano come modello universale di buon comportamento. Anche la stampa cambia stile, diventa di parte, si latinizza.

Prendete per esempio il Financial Times di venerdì scorso. Nella rubrica Lex column è venuto in soccorso di Jp Morgan, Ubs, Deutsche bank, Depfa rinviate a giudizio dal Gup di Milano Simone Luerti per la vicenda dei derivati che, secondo l’accusa, sarebbero costati al Comune di Milano una cifra vicina ai 100 milioni di euro in commissioni occulte.



La Lex ha scritto in sostanza che non c’è nulla di poco ortodosso in quanto hanno fatto i quattro istituti di credito visto che la stessa pratica viene seguita dalle amministrazioni di tutte le principali città europee; ha ironizzato sull’atteggiamento di Milano che si ritiene la capitale economico-finanziaria d’Italia e si comporta invece “come una piccola città di provincia quando sostiene di non aver capito i termini dell’operazione”.



In più, come chicca finale, la famosa rubrica del Financial Times ha fatto delle insinuazioni sull’operato della magistratura, giudicando strano che la vicenda dei derivati, “tenuta in forno per due anni”, sia esplosa proprio adesso alla vigilia di elezioni regionali che hanno comunque una forte valenza politica nazionale. In sostanza è successo questo: il Financial Times che, assieme alla gran parte della stampa britannica, attacca sistematicamente Silvio Berlusconi per le sue critiche alla magistratura politicizzata, ha accusato la stessa magistratura italiana di prestarsi in questa occasione a oscuri giochetti partitici (non si capisce bene a favore di chi).



Davvero straordinaria questa lezione di giornalismo. Che rischia di portare la vicenda dei derivati e della presunta truffa subita da palazzo Marino su un terreno di scontro fra differenti anime del capitalismo che francamente non c’entra nulla. Qui si tratta di stabilire se in un caso specifico c’è stato o meno un atteggiamento ingannevole da parte di 13 persone rinviate a giudizio. La magistratura a partire dal 6 maggio prossimo si occuperà della vicenda e stabilirà, nei tre gradi di giudizio previsti dalla legge, se l’accusa è fondata o no.

Quella specifica accusa, riferita a quei precisi episodi. Non è un processo generico, ideologico per mettere alla sbarra la finanza di matrice anglosassone, i suoi prodotti, o la City stessa. Si vuole invece accertare, detto in parole molto povere e poco da gentleman, se in quel 2005 nell’operazione derivati qualcuno ha tirato un bidone al Comune di Milano nascondendo delle commissioni che sarebbero emerse solo in seguito, oppure se questo non è successo. Punto.

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Questa d’altra parte è la linea seguita anche dai politici milanesi a partire da Giacomo Beretta, ex presidente della Commissione bilancio del Comune di Milano e da circa un anno assessore al bilancio nella giunta guidata da Letizia Moratti. “Io non voglio assolutamente demonizzare lo strumento dei derivati – ha detto a ilsussidiario.net – È un prodotto complesso e le amministrazioni dovrebbero usarlo con prudenza perché quando si parla di denaro pubblico la cautela è obbligatoria. Nel caso specifico penso che sia stato un errore indebitare il Comune per un periodo così lungo, 25 anni, esponendosi al rischio di tassi variabili. Ma al di là di questo (è stata una scelta sbagliata, ma consapevole) bisogna accertare se ci sono stati dei costi impliciti per milioni di euro che non sono stati palesati durante le trattative per concludere l’operazione di finanziamento e che non compaiono nei relativi contratti”.

 

Beretta ripercorre l’intera storia dell’operazione. Alla fine del 2007, quando la magistratura aveva già iniziato a muoversi e mentre Davide Corritore, consigliere del Pd, preparava gli esposti alla Procura milanese, è stata formata una commissione di saggi per capire, valutare. “Erano tre esperti – ricorda – uno nominato dalla maggioranza, uno dall’opposizione e uno da me in quanto presidente della Commissione bilancio. Questi tecnici hanno lavorato per alcuni mesi, studiato le carte e i contratti, e hanno accertato che effettivamente c’erano dei costi impliciti per un cifra compresa fra i 75 e gli 81 milioni. Di fronte a questa conclusione della Commissione abbiamo deciso di chiedere i danni, di fare causa agli istituti bancari”.

 

Beretta avrebbe voluto aprire un tavolo di trattative con le banche, vedere se era possibile individuare una soluzione mediatrice per recuperare parte (il più possibile) delle commissioni ritenute improprie. Anche per raggiungere un risultato in tempi più rapidi di quelli che saranno dettati dall’iter della giustizia. Ma la via si è rivelata impraticabile: la magistratura era già in azione su un’ipotesi di reato e gli esposti di Corritore lanciavano l’accusa di truffa aggravata. Dunque la presenza di un’iniziativa penale escludeva qualsiasi ipotesi di trattativa tra le parti. Ora il Comune, dopo i 13 rinvii a giudizio, dovrà decidere se presentarsi parte al processo. Tutto lascia pensare che entro il 6 maggio lo farà.

 

Comunque andrà a finire nelle aule di giustizia, questo caso dei derivati permette di fare un’osservazione politica un po’ insolita per l’Italia. Fondata o infondata che sia, siamo di fronte a una storia finanziaria che coinvolge assessori, city manager, una giunta di centro-destra (quella di Gabriele Albertini), banche internazionali, tanti milioni di euro, e un’accanita opposizione che si mette a indagare sulla vicenda e arriva a presentare tre esposti.

 

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C’erano tutti gli elementi, e in sovrabbondanza, per montare un caso politico, uno scandalo da far impallidire quelli che hanno occupato e stanno occupando le cronache negli ultimi anni. Invece a Milano questo non è successo. La sinistra, per bocca di Corritore, ha detto più volte di non volere giustizialismo né strumentalizzazioni. “E noi siamo d’accordo – dice Beretta -. Quando si deve tutelare il patrimonio della città non è questione di centro-destra o centro-sinistra”.

 

Insomma, in questo caso i due schieramenti possono anche collaborare. Forse il Financial Times non sarà d’accordo, ma stavolta a Milano si sta facendo buona politica.