Gli azionisti Fiat che oggi si riuniscono in assemblea saranno frastornati dalle anticipazioni pubblicate da La Repubblica sul piano Marchionne per gli stabilimenti italiani, secondo il quale i modelli dovrebbero essere ridotti a otto e gli organici tagliati di cinquemila persone, da Termini Imerese, che verrà chiusa, a Mirafiori. Tutto ciò con un salto di produttività del 30% circa, perché la produzione dovrebbe salire dalle 650 mila vetture attuali a 900 mila (sempre che ci sia domanda).



Vero o soltanto verosimile, non è questo il piano strategico consolidato, l’unico che conti per capire dove sta andando la nuova Fiat e che Marchionne presenterà soltanto il 21 aprile all’azionista di riferimento: la Exor guidata da John Elkann.

Oggi gli azionisti dovranno esaminare i risultati di un anno, il 2009, vissuto pericolosamente, durante il quale ancora una volta la sorte della Fiat è stata rimessa in discussione. Il 20 gennaio viene firmato l’accordo con Chrysler. A febbraio Moody’s declassa il debito a livello di junk (spazzatura) e il titolo precipita a 3,6 euro (nel maggio 2008 aveva superato i 15, oggi è a quota 9). Il primo maggio Obama benedice il progetto americano di Sergio Marchionne il quale in autunno annuncia i primi tagli, passaggio obbligato di un progressivo addio all’Italia.



Tutti gli azionisti, a cominciare dai piccoli sempre lasciati all’oscuro, sono tormentati da un cruccio ricorrente che potremmo chiamare il dilemma delle casse e dei cassetti. Quando Marchionne è arrivato, le casse erano piene e i cassetti vuoti. Piene di proventi straordinari (i soldi di GM, la vendita dei gioielli di famiglia tra i quali la Toro), ma non di utili operativi, perché ogni vettura prodotta generava una perdita. Il compito principale del nuovo amministratore delegato, formidabile uomo di conti come fu Vittorio Valletta, è stato frenare l’emorragia e ha avuto successo. Quanto ai nuovi progetti nei cassetti ce n’erano ben pochi.



Marchionne ha preso quel che ha trovato, lo ha confezionato al meglio e messo sul mercato. Qualcosa è andato bene come la nuova Punto, qualcos’altro meno come la Bravo, confermando la debolezza cronica nel segmento C. Il vero successo è stata la 500 che ha creato un nuovo segmento nel quale oggi tutti cercano di inserirsi a cominciare dal mastodonte Volkswagen dove, tra l’altro, lavora Luca De Meo, giovane padre della 500.

Il dilemma delle casse e dei cassetti si ripropone pari pari anche per quel che riguarda il grande salto che il piano strategico dovrebbe annunciare: la fusione tra Fiat auto e Chrysler. Il problema non è tanto se l’auto esce dalla Fiat per entrare in Chrysler o se escono gli altri settori (Cnh cioè le macchine industriali, i camion e autobus di Iveco, la componentistica elettronica di Marelli, e la Ferrari) per diventare i terminali industriali di Exor.

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Il problema è come verrà scomposta Powertrain che concentra la motoristica, come saranno suddivisi i debiti del gruppo, che fine faranno le risorse più importanti: gli uomini. E ancora: con quali denari portare a termine l’operazione e con quali prodotti. Casse e cassetti, come sempre.

 

Il primo quesito riguarda i motori italiani: sono verdi abbastanza? Tutte le grandi case stano lavorando per ridurre i consumi a parità di potenza e per cercare alternative ai combustibili fossili. La 500 elettrica è soprattutto una bella bandierina. L’ibrido è appannaggio dei giapponesi. Riccardo Ruggeri, ex top manager del Lingotto, l’uomo che realizzò New Holland mettendo insieme le macchie agricole Fiat e Ford, nel suo ultimo libro “Parola di Marchionne”, si chiede: “A chi vendere Chrysler-Fiat-Alfa Romeo in America? A quale cliente? C’è una visione di tipologia di acquirente?”.

 

Ecco le domande chiave per giudicare il piano strategico. “A oggi l’accordo tra Fiat e Chrysler appare una fusione fredda – sottolinea Ruggeri – Per competere e vincere occorre scaldare di più la miscela, ma ci vuole molto gas, tanta immaginazione e soprattutto tanti soldi”. E allora dai cassetti torniamo alle casse. L’operazione Chrysler è stata realizzata con i soldi dei contribuenti americani. A “chilometri zero” per gli eredi Agnelli. E francamente non si capisce come si possa costruire una grande multinazionale senza sborsare un quattrino. Un nonsense? O una rivoluzione nel business model del capitalismo uscito dalla grande crisi?