La prossima puntata della vicenda Fiat è fissata per il 21 aprile quando l’amministratore delegato, Sergio Marchionne, presenterà il piano strategico, il documento che dirà (dovrebbe dire) dove andrà (o vorrebbe andare) il gruppo torinese nei prossimi anni. Ha ragione Stefano Cingolani quando scrive (ilsussidiario.net di venerdì scorso) che lo presenterà soprattutto alla Exor, la finanziaria della famiglia Agnelli cui fa capo più o meno il 30 per cento, e con esso, il controllo del Lingotto. Saranno loro a dire la parola definitiva sul destino della Fiat. Ci credono ancora al punto da continuare a investirci? Pensano che possa rimanere protagonista in un settore, come quello automobilistico, destinato a una competizione globale ogni giorno più accanita? Fino a che punto si potrà davvero difenderne l’italianità, al di là delle dichiarazioni dettate dalla convenienza politica di oggi? E la famiglia rimarrà nel gruppo che ha fondato oltre cento anni fa o preferirà defilarsi silenziosamente, puntando su obiettivi di diversificazione degli asset?



All’assemblea di venerdì scorso sia Marchionne, sia il presidente, Luca Cordero di Montezemolo, hanno detto che oggi la Fiat è vittima di attacchi sconsiderati, è diventata oggetto di «un nuovo tiro al bersaglio da parte di esponenti del mondo politico, sindacale e, qualche volta, purtroppo, anche imprenditoriale». «Nessuno in buona fede – ha detto l’amministratore delegato – può accusare la Fiat di vivere alle spalle dello Stato o di abbandonare il Paese. Non siamo andati all’estero per capriccio, ma per rendere l’azienda più forte». Chi ha ragione: i critici che attaccano Torino perché vuole chiudere impianti come Termini Imerese, con un’evidente valenza sociale, o perché con l’alleanza con la Chrysler sposta il baricentro del gruppo oltre Atlantico? Oppure è vero quello che dicono i vertici del Lingotto e cioè che le scelte fatte, e che verranno certamente confermate dal piano strategico, erano e sono inevitabili se si vuole tener in vita il primo gruppo industriale italiano?



Per rispondere bisogna partire da cinque anni fa quando alla guida della società è arrivato Marchionne trovando un’azienda tecnicamente fallita. In un tempo tutto sommato breve il manager italo-canadese è riuscito a ribaltare la situazione, tanto da essere osannato (forse anche al di là della ragionevolezza) da tutta la stampa e non solo italiana. I suoi azionisti, come ha ricordato lo stesso Marchionne in assemblea, hanno fatto il loro dovere visto che «dal 1993 al 2005 hanno ricapitalizzato la società con quasi 8 miliardi». Questi sono fatti certi, incontestabili.

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Ai quali però se ne possono contrapporre altri. Il primo è che la Fiat, mentre annuncia la chiusura di fabbriche nel Sud e parla di ulteriori esigenze di razionalizzazione (il che significa altri sacrifici occupazionali) e mentre archivia il bilancio del 2009 con una perdita di 848 milioni, decide anche di distribuire un dividendo agli azionisti. I quali azionisti continuano a dar corpo a voci che parlano di uno spin off dell’auto dalle restanti attività, operazione che – dicono – ha molte valenze finanziarie positive, compresa quella di consentire alla famiglia Agnelli di defilarsi da un settore che da dieci anni ha smesso di produrre ricchezza.

 

Per quanto riguarda Marchionne, dopo aver ribadito che è stato ed è un eccellente manager e che senza di lui la Fiat probabilmente avrebbe già dovuto portare i libri in tribunale, bisogna aggiungere che da un produttore di automobili ci si sarebbe aspettata qualche automobile in più e anche un po’ migliore. Di nuovo ha ragione Cingolani: l’unico vero successo di Marchionne nel prodotto è stato la 500. Non basta per competere con Volkswagen, Toyota, Ford e tutti gli altri. È stato assicurato che l’alleanza con la Chrysler prevede molte novità sia sul mercato americano, sia su quello italiano. C’è da augurarselo e da sperare che arrivino presto.  

 

I critici più accesi della Fiat sono scettici e sostengono che sarebbe stato meglio gestire la crisi in maniera del tutto diversa. In America, e in parte anche in Europa – sostengono – i governi non sono scesi direttamente in campo per salvare le industrie automobilistiche nazionali? E allora forse anche in Italia sarebbe stato preferibile che lo Stato, in qualche modo (malgrado i vincoli dell’Unione europea) fosse intervenuto in prima persona nella vicenda Fiat, in modo da poterne condizionare le scelte strategiche ed evitare falcidie di posti di lavoro e trasferimenti di stanze dei bottoni dall’Italia all’America. Insomma il pubblico non avrebbe dovuto scartare l’ipotesi di affiancarsi ad azionisti privati ormai svogliati e poco interessati al business automobilistico.

 

In Italia spesso vengono fatte scelte, in campo economico, di cui poi ci si pente. Un quindicina di anni fa è stata avviata una politica di privatizzazioni delle imprese pubbliche che si è rivelata, nella modalità dell’esecuzione e nei suoi esiti, disastrosa, distruttiva di ricchezze costruite durante anni. Con tutti i difetti che avevano (commistione politica-affari, corruzione, clientelismo, eccetera) si è arrivati a dire “ridateci i boiardi”. Bisogna però evitare che il pendolo oscilli troppo nella direzione opposta: il governo sta già dimostrando un ritorno di grande attrazione-attenzione verso la finanza e il business, come testimoniano in questi giorni le nomine ai vertici delle Generali e la ridefinizione dei poteri nelle grandi banche. Se è questo lo scenario che si prospetta, teniamoci gli Agnelli.