Dal Lingotto gettano acqua sul fuoco: aspettiamo il 21 aprile per conoscere il piano industriale 2010-14 con dati, cifre e prospettive concrete; allora, sarà più chiaro il destino del gruppo. Eppure, quando Sergio Marchionne a Ginevra ha parlato di “scorporo” dell’auto intendeva una cosa precisa.
Analisti e reporter, dunque, non hanno affatto arzigogolato sulle nuvole, nel dipingere un quadro che, sia pur ufficioso, sembra ormai abbastanza chiaro. Del resto, se ne parla, tra tira e molla, da anni. Fiat auto si separa dalle altre attività e probabilmente porta con sé anche Powertrain (i motori), Magneti Marelli (batterie e apparati elettronici), Comau (robot), insomma le tre società organiche alla produzione automobilistica. Fra un anno, quando Chrysler avrà superato la prima massiccia dose della cura, verrà fusa con la consorella italiana. Intanto, i modelli Lancia dello stesso segmento verranno integrati con quelli della casa americana.
Marchionne conta di produrre 5,5 milioni di vetture Fiat e Chrysler, così si avvicina alla fatidica quota 6, ma non è ancora in sicurezza. Si levano nuove voci e nuove ipotesi sul terzo vertice del triangolo che non è riuscito l’anno scorso con Opel. Torna in campo Peugeot, ma resta pesante il vincolo politico: Sarkozy ha detto chiaro e tondo che l’auto non deve emigrare e intende farsi rispettare. Il governo italiano, invece, non può far nulla tranne mugugnare. La Francia è ancora un grande produttore con oltre due milioni di vetture l’anno, l’Italia non più con le sue 650 mila appena.
Jean Philippe Varin, il capo di Peugeot-Citroen, ha illustrato al Corriere della sera i suoi progetti di sviluppo globale, dalla Cina all’America Latina. Alla domanda sul perché non sia stato firmato l’accordo con la Fiat risponde con un’altra domanda: “Perché Sergio ha comprato la Chrysler?”. Marchionne potrebbe replicare: perché con Psa non si andava da nessuna parte. Mai dire mai, ma non sembra il clima giusto per un matrimonio. Dunque la casa torinese (sempre meno torinese e sempre meno italiana) si guarda in giro, soprattutto in Oriente. Il suo principale punto debole si chiama Cina. Lì, nel celeste impero, nella Terra di mezzo, non batte chiodo.
Senza più l’alibi degli incentivi, il titolo Fiat risale in Borsa e Marchionne si sente con le mani libere. Lo scorporo prepara un futuro polo automobilistico che lo vede come capo indiscusso, anche se il cammino resta lungo e disseminato di ostacoli. E va nella direzione auspicata dagli eredi Agnelli i quali vogliono liberarsi dell’auto, ormai fonte perenne di perdite finanziarie e di guai politici e sociali. Con L’Avvocato restava il cuore pulsante dell’impero. Adesso, invece, la famiglia non ha vocazione industriale e si identifica piuttosto nei Rockefeller: finanzieri con una base nell’industria, ma con sempre nuove proiezioni nei servizi.
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Cosa resta della Fiat e quanto vale? Rimangono le macchine agricole di Case New Holland e i camion di Iveco. Può darsi che anche loro trovino partner per alleanze strategiche. Se Fiat auto si fonde con Chrysler, la holding avrebbe meno della metà della nuova aggregazione. Ma ‘’azionista vuol scendere sotto il 30% in modo da non dover consolidare le eventuali future perdite. Quindi ha bisogno di chiudere il triangolo. Per quel che riguarda i valori, Mediobanca si è messa già all’opera e calcola per Fiat auto 5,5 miliardi, press’a poco equivalente ai propri debiti. Il resto del gruppo, invece, vale 12,5 miliardi. L’effetto sulla borsa sarebbe positivo, e potrebbe far salire la valorizzazione fino a 20 miliardi.
Diverso è calcolare il peso specifico di una Fiat senza auto e che opera sempre più all’estero (anche CNH, non lo dimentichiamo, è americana). Gli eredi Agnelli si preparano a un distacco dall’Italia (John Elkann del resto è cosmopolita più che italiano) e dalla stessa Torino, nostalgica sede di un tempo che fu. Inutile fare i gozzaniani, attaccandosi alle piccole cose di pessimo gusto. Il mondo gira così e Fiat gira con il mondo. A questo punto, però, anche il resto del paese deve ragionare in modo serio sul che fare.
L’automobile è l’industria delle industrie, con l’indotto, l’innovazione, la ricerca, l’occupazione, senza trascurare le entrare fiscali che il sistema automobilistico assicura allo stato. Bisogna chiedersi onestamente se e come riuscirà a garantire un futuro a 60 milioni di persone un’Italia fatta di consumi, microimprese, un vecchio terziario che, per debolezze culturali, imprenditoriali e sindacali, ha perso il treno (i gruppi più forti e innovativi nella distribuzione sono tutti stranieri da Carrefour a Ikea a Zara), con un turismo regredito in posizioni intermedie (nonostante tutte le chiacchiere sulle risorse artistiche e naturali), senza più industria pubblica né grande industria privata (teniamo conto che ormai anche Italcementi, Merloni, Pirelli sono sempre più internazionali). È ora di parlarne. Anzi, è ora di non parlarne soltanto.