L’Europa ci manda segnali contrastanti. Vola, ad esempio, la fiducia delle imprese della zona euro: l’indicatore Business Climate indicator a marzo ha messo a segno il dodicesimo rialzo di fila. Il rimbalzo – dice Eurostat – ormai dura da un anno e «lascia prevedere come l’attività economica nel settore industriale proseguirà nella sua ripresa, sebbene ci sia ancora strada per tornare ai livelli pre-crisi».



Da un sondaggio Eurostat emerge come i manager industriali professino «ottimismo per quel che riguarda le aspettative su ordini e produzione. E ancor più positive sono le previsioni sulle esportazioni». Mentre per quel che riguarda gli stock, gli imprenditori dell’eurozona giudicano l’attuale livello «al di sotto di quanto desiderato».



Anche l’Esi (Economic sentiment indicator), altro indicatore che misura la fiducia di imprese e consumatori in Eurolandia e nell’intera Ue, nel mese di marzo è «migliorato significativamente», dopo lo stallo registrato in febbraio. Tra i Paesi – sottolinea Eurostat – a trainare è, guarda caso, la Germania, insieme a Polonia, Regno Unito e Olanda. Ripresa più lenta della fiducia in Francia e Spagna, mentre – evidenzia ancora ‘‘ufficio europeo di statistica – in Italia si è «leggermente deteriorata». La fiducia delle imprese – spiegava infine Eurostat – va un po’ meglio di quella dei consumatori tra i quali continua a regnare una certa preoccupazione legata all’aumento della disoccupazione.



Come dar torto a quest’ultimi, d’altronde, visto che gli ultimi dati ci dicono che il tasso di disoccupazione dell’eurozona a febbraio è salito di nuovo al 10% dal 9,9% di gennaio, raggiungendo il massimo storico dall’agosto 1998, mentre nel febbraio 2009 il dato era pari all’8,8%. Anche per l’Ue a 27 stati membri la disoccupazione a febbraio è salita raggiungendo il 9,6% dal 9,5% di gennaio, raggiungendo il nuovo massimo storico dall’inizio della serie statistica nel gennaio 2000: era all’8,3% nel febbraio 2009.

Per l’Italia, invece, la quota di disoccupazione è rimasta stabile all’8,5%, mentre era al 7,3% nel febbraio 2009. Eurostat stima i disoccupati nell’Ue in febbraio a 23,01 milioni, di cui 15,74 nell’eurozona. L’incremento rispetto a gennaio è stato di 131.000 unità, di cui 61.000 nell’eurozona: rispetto al febbraio del 2009 l’aumento è stato di 3,13 milioni nell’Ue di cui 1,84 milioni nell’eurozona. E cresce anche l’inflazione dell’eurozona, che a marzo ha raggiunto l’1,5% dallo 0,9% di febbraio: l’inflazione è salita anche in Italia dove però a marzo, su base tendenziale, è all’1,4%.

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Il fatto che l’inflazione risalga non deve stupire, visto che questa rappresenta il modo con cui gli Stati “mangiano” debito scaricandone i costi sui cittadini: e visto che ci troviamo di fronte a un’Europa del debito alle stelle, prepariamoci non a un’impennata ma sicuramente a una crescita nei prossimi mesi. Insomma, è un’Europa divisa tra l’ottimismo dei manager e il pessimismo dei cittadini, tra l’euforia esportatrice per l’euro debole che fa felice la Germania e i timori per un numero di disoccupati da record quasi assoluto.

 

Il tutto mentre almeno due Stati stanno per andare a fare compagnia alla Grecia: il Portogallo fresco di downgrade e l’Irlanda, che l’altro giorno ha lanciato la disperata operazione di bad bank attraverso cui la National Asset Management Agency ricomprerà a prezzi di sconto i titoli tossici ancora nei bilanci degli istituti di credito pagando 8,5 miliardi di euro a fronte di un mark-to-market di quella spazzatura pari a 16 miliardi, il 47% in meno rispetto al nominale.

 

Speriamo per Dublino che questo sia sufficiente, non avendo potuto godere degli aiuti e delle attenzioni riservate alla Grecia dall’Ue, ma temiamo che non basterà e la tenuta sociale dell’ex tigre celtica sarà messa a dura prova da un “primavera dello scontento” basata su nuovi tagli, nuovi buchi alla cintura della spesa e disoccupazione record.

 

Diciamo questo perché proprio ieri la Bank of Ireland ha presentato un rosso da tre miliardi di euro nei primi nove mesi dell’anno finanziario e annunciato la necessità di raggranellare 2,7 miliardi di euro per puntellare i bilanci: auguri, i cds nel frattempo schizzano alle stelle. Ma mentre l’Europa langue tra stime tutte da verificare e guai, invece, decisamente concreti, nel mondo si tornano a muovere pedine molto chiare e si dichiara guerra in nome dell’energia, il mezzo migliore per uscire dalla crisi. O, altrimenti, per farci ripiombare in maniera devastante qualche nemico.

 

Non è un caso che ieri il capo dei servizi segreti russi abbia chiamato in causa la Georgia per l’attentato di Mosca, costato la vita a 39 persone e il ferimento di altre decine. Nell’agosto del 2008 si arrivò quasi alla guerra tra i due paesi per la disputa sulla piccola regione dell’Ossezia, ma anche allora i motivi erano ben altri, gli stessi di oggi: il ruolo quasi monopolista della russi nel campo energetico e di idrocarburi, con Gazprom pronta ad investimenti miliardari per invadere l’Europa e divenirne unico referente nel settore.

 

Partiamo da lontano. Con una serie di accordi, la Russia si è assicurata buona parte di petrolio e gas estratti in Kazakistan e Turkmenistan. Ciononostante, i due Paesi commerciano anche con altri partner, bypassando la Russia attraverso il Mar Caspio. Trasportate via mare, le materie prime sbarcano presso Baku, in Azerbaijan. Da qui, integrate con le ricche riserve azere, attraversano chilometri di deserto verso ovest. Un vecchio oleodotto (Baku-Novorossijsk) raggiunge il Mar Nero via Russia. Altre tre condutture passano invece per la Georgia, e su queste ha investito l’Occidente con lo scopo di tagliar fuori proprio il gigante di Putin e Medvedev.

 

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Il primo atto delle ostilità si consuma… in Turchia. Qui arrivano, dall’Azerbaijan, via Georgia, un tubo di petrolio (Baku-Tbilisi-Ceyhan) e uno di gas (Baku-Tbilisi-Erzurum). I guerriglieri curdi del Pkk hanno la loro roccaforte nella regione turca tagliata dalle condutture: il 5 agosto del 2008 il Pkk mette fuori uso il BTC con un attentato. Le compagnie petrolifere che controllano la linea (Socar e British Petroleum) dirottano immediatamente le forniture nel terzo tubo georgiano, l’oleodotto Baku-Supsa. Il petrolio riesce così a evitare la Turchia e raggiungere le costa del Mar Nero dove si imbarca per l’Europa.

 

Intanto, però, la Georgia invade l’Ossezia del Sud. La Russia organizza una risposta rapidissima e l’8 agosto contrattacca: i primi obiettivi colpiti dall’aviazione sono il – già fuori uso – Baku-Tbilisi-Ceyhan, senza gravi danni, e il porto georgiano da cui parte il petrolio arrivato col Baku-Supsa. I rifornimenti all’Occidente lungo la via georgiana sono così strozzati. Ora, punto e a capo. Con l’aggravante di un crisi che può rendere la guerra per la supremazia energetica un confronto davvero senza esclusione di colpi.

 

E che dire del minerale ferroso, il cui prezzo da domani salirà del 90% in virtù dell’accordo tra grandi produttori che ha visto BHP Billiton vincere la propria guerra per arrivare a una revisione trimestrale dei prezzi dopo quarant’anni di fixing annuale? Di questo non leggerete da nessuna parte, sembrano notizie per addetti ai lavori, ma il prezzo di queste manovre ricadrà su tutti noi: ne gioiscono però i due giganti, BHP Billiton e Rio Tinto, poiché i nuovi contratti imporranno loro il pagamento del trasporto via nave, ma le reti asiatiche di questi due soggetti sono più vicine di quanto non siano le operazioni in Brasile del competitor Vale, che pagherà di più.

 

Esultano anche gli australiani, in questo caso i produttori che si vedono ora sgravati da quest’onere e diventano quanto mai competitivi. Nemmeno a dirlo, le azioni di BHP Billiton e Rio Tinto sono schizzate alle stelle durante le contrattazioni di ieri pomeriggio a Londra. Chi ha supervisionato l’operazione? Goldman Sachs e Macquarie Bank, ovviamente. E chi ci perde, parecchio, da questo nuovo meccanismo? Già, proprio la già inguaiata Cina. Il rischio più immediato legato alla crescita dell’economia cinese è infatti il risorgere dell’inflazione, come si inizia ad intravedere con l’aumento annuo attestatosi al 2,7% a febbraio. Inoltre, come abbiamo già detto in precedenza, è in corso di formazione una bolla sul mercato immobiliare, dato che nella capitale, Pechino, le case hanno raggiunto un prezzo al metro quadro che sfiora i 4 mila euro, per superare addirittura i 5 mila nelle zone più esclusive, follia in un paese dove i salari ammontano mediamente a 600 euro al mese.

 

Per avere un’idea della crescita dei prezzi immobiliari basta considerare che essi sono cresciuti in un anno dell’8% nelle 70 maggiori città della Cina, ma di oltre il 30% nelle città di Pechino, Shanghai e Shenzhen: qui il prezzo è più che raddoppiato in tre anni. Lo scoppio di una bolla immobiliare sarebbe deleterio per il sistema bancario cinese, che ha prestato solo nel 2009 centinaia di miliardi di dollari per finanziare le costruzioni. Le autorità di Pechino stanno cercando di contenere il fenomeno con una serie di misure restrittive sul credito ma, come si dice in gergo, appare come chiudere il recinto quando i buoi sono già scappati.

 

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Un altro problema è rappresentato dalla valuta cinese, il renmimbi, artificialmente legata al dollaro da un peg non trattato sui mercati ma fisso. Secondo il premio Nobel, Paul Krugman, sarebbe sottovalutata tra il 20 e il 40%, creando in tal modo un enorme danno commerciale agli Usa e agli altri paesi occidentali attraverso una chiara strategia di dumping: il risultato è un accumulo di riserve valutarie pari a 2.400 miliardi di dollari che s’incrementano a ritmi 10 volte maggiori rispetto a 7 anni fa. Un’altra bolla, spaventosa.

 

Questo accordo sul minerale ferroso, per quanto piccolo e arcano ai più, è il primo passo della controffensiva anti-cinese: il fronte energia, come vedete, è in movimento. E sono movimenti di guerra per Pechino e Mosca. I dati Eurostat con cui è cominciato questo articoli, alla luce di tutto questo, sono poca cosa di cui preoccuparsi. C’è decisamente di peggio. Se l’Europa ci manda segnali contrastanti, infatti, il mondo ce ne manda di inquietanti. Ancorché mascherati da atti di terrorismo e anonimi accordi commerciali.

 

Sono troppi, infatti, i segnali che collimano. Il petrolio che, contro ogni fondamentale, risale sopra gli 83 dollari al barile. Ad esempio. Oppure il fatto che, guarda caso, le principali banche d’affari sapevano già del buon esito della trattativa sul minerale ferroso e hanno approntato desk apposta per creare un mercato di derivati su commodties ad hoc, simile a quello usato per trattare swaps su petrolio e alluminio, il cui volume di transazioni potrà superare i 200 miliardi di dollari. Qualcuno le notizie, anche apparentemente insignificanti, le legge. O, addirittura, le fa. Come diceva Gordon Gekko in “Wall Street”.