Ieri il Dipartimento delle Finanze ha comunicato i dati relativi alle dichiarazioni fiscali del 2009: emerge che oltre la metà degli italiani ha denunciato redditi inferiori ai 15.000 euro all’anno. Inoltre, meno dell’1% dei contribuenti ha superato quota 100.000 euro. Dati che arrivano il giorno dopo il grande annuncio del ministro dell’Economia Giulio Tremonti: la riforma del sistema fiscale da attuare entro tre anni, data di scadenza dell’attuale legislatura. Un progetto ambizioso basato su tre pilastri: spostamento progressivo del carico dell’Irpef alle imposte indirette come l’Iva; il federalismo fiscale; la lotta all’evasione. Inoltre, il ministro ha ipotizzato di inviare a casa degli italiani la dichiarazione dei redditi pre-compilata per semplificare le procedure fiscali. Una riforma importante, che però dimentica, spiega a ilsussidiario.net Luigi Campiglio (prorettore dell’Università Cattolica di Milano e docente di Politica Economica), le famiglie.



Professore, il progetto di riforma fiscale di Tremonti si basa innanzitutto sul passaggio della tassazione dalle persone alle cose. Una buona mossa?

Il disegno di Tremonti è un passaggio desiderabile: volendo disegnare un sistema fiscale a tavolino andrebbe più che bene. Ci sono però dei costi di transizione per passare da un sistema incentrato sulle imposte dirette a un altro basato su quelle indirette (che è simile al modello fiscale francese). Per compensare il minor gettito d’imposta, nei primi anni si dovrà quindi almeno aumentare l’Iva e questa non è un’operazione “tranquilla”. In ogni caso il nuovo modello ha più virtù che limiti.



Questo nuovo progetto sembra però dimenticare punti del programma della maggioranza quali l’introduzione del quoziente famigliare, l’abolizione o il calo dell’Irap e la diminuzione delle aliquote Irpef.

La scorsa settimana ho partecipato alla presentazione del Rapporto del Centro internazionale studi famiglia cui ha presenziato anche il presidente della Camera Gianfranco Fini. Con l’occasione gli ho chiesto: secondo lei, in che modo si riuscirà a far entrare la famiglia nell’agenda politica? Una domanda “maliziosa”, perché presuppone che la famiglia sia stata messa da parte. Fini ha spiegato che probabilmente occorre una visione più ampia di quali sono le categorie più deboli, ma implicitamente ha riconosciuto “l’emarginazione” della cellula fondamentale della società.



Questo per un problema economico? Cioè, la questione è che mancano risorse economiche per introdurre il quoziente famigliare?

Immagino che non sia solo un problema economico. Tremonti probabilmente ritiene che tutta la questione della famiglia sia esclusivamente un fatto attinente il mondo cattolico. Non capisce che è anche la base per la ripresa del paese. Come lei diceva, il quoziente famigliare era nel programma elettorale della maggioranza: che fine ha fatto adesso?

Secondo lei perché non viene introdotto?

Perché si dice che il quoziente famigliare è un costo (la cifra indicata è di circa 8 miliardi): ma a chi costa? La risposta in realtà è “alle famiglie stesse”. Mi spiego: dire che sia un costo, significa ammettere implicitamente che un’ampia fascia di famiglie italiane sta pagando più imposte del necessario per 8 miliardi di euro. In una situazione così delicata per tanti aspetti (in particolare demografico e congiunturale) come quella che stiamo vivendo, avere un’imposta “occulta” che pesa sulle famiglie, soprattutto quelle che hanno reddito dipendente, è una cosa che va al di là del bene e del male.

 

Mi scusi, ma liberare le famiglie da imposte per 8 miliardi di euro potrebbe permettere di aumentare la loro capacità di spesa. Se nel contempo la tassazione si sposta sui consumi sarebbe anche possibile “recuperare” gli 8 miliardi a cui si rinuncia.

 

Certamente. E per questo sostengo che il quoziente famigliare (o comunque le politiche fiscali in favore della famiglia) sia un ottimo strumento per favorire la ripresa e lo sviluppo economico: si possono infatti stimolare i consumi in un momento importante come quello attuale. Rinunciare a un’imposta “occulta” potrebbe quindi avere i suoi vantaggi in un periodo relativamente breve.

 

Questo discorso del “costo” vale anche per l’Irap?

 

Sì. In questo caso bisogna anche ricordare che per la sua struttura particolare, l’Irap è un’imposta che colpisce in misura maggiore le imprese che offrono posti di lavoro.

 

Ieri sono stati diffusi i dati del Dipartimento delle Finanze relativi alle dichiarazioni dei redditi del 2009. Emerge che oltre la metà degli italiani ha dichiarato redditi inferiori ai 15.000 euro annui. Siamo davvero un popolo così povero?

 

Questi dati dovrebbero comprendere la gran parte dei redditi che vanno poi a comporre il Prodotto interno lordo. La questione è che basta guardarsi intorno per capire che queste cifre sono indubbiamente lontane dall’esperienza quotidiana di molti: i redditi lordi sono probabilmente nella media superiori. Inoltre la quota dei redditi considerati alti in questi dati è piuttosto bassa: 100.000 euro non sono poi una così gran cifra per essere considerati “ricchi”.

 

Significa allora che questi dati sono in qualche modo viziati dall’evasione fiscale?

 

Credo proprio di sì. Non dobbiamo dimenticare che circa il 20% del Pil è totalmente inosservato dal fisco: una cifra che equivale a circa il 30% dei redditi da lavoro dipendente.

 

I dati si riferiscono alle dichiarazioni del 2009, quindi ai redditi percepiti nel 2008. Pensa che la crisi economica possa ora aver peggiorato la situazione?

 

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In una certa misura sì. Nel Paese, infatti, esiste certamente un problema di livello inadeguato dei redditi dipendenti (che sono l’80% dei redditi totali) rispetto al costo della vita, in particolare per quel che riguarda il costo dell’abitazione (sia in affitto che in proprietà). I “costi fissi” per poter vivere sono tre: abitazione; spese generali come bollette; trasporti. Tolti questi costi fissi dal reddito, cosa resta per il fabbisogno alimentare? Poco, e la tendenza ora è quella di spendere meno per il cibo, con riflessi sulla sua qualità, che specialmente per i minori e i bambini può essere dannosa.

 

Un aiuto arriva però dalla capacità di risparmio degli italiani: spesso i genitori possono intervenire economicamente per aiutare i figli che non ce la fanno.

 

Questo è il motivo per cui la contrapposizione fatta in passato tra padri e figli non ha più senso. È un fatto importante di cui tener conto, specialmente nell’ipotizzare la riforma delle pensioni. Come faranno i padri con meno pensioni ad aiutare i figli? La cosa migliore sarebbe pagare meglio, e in maniera giusta, i figli. Ma mi rendo conto che non sarà una cosa semplice.

 

I dati del Dipartimento delle Finanze evidenziano anche una differenza territoriale: in Lombardia il reddito medio complessivo dichiarato è di 22.540 euro, in Calabria ammonta a 13.470: una diversità notevole.

 

Si tratta però di una discrepanza che non coglie la vera capacità di spesa e di risparmio delle famiglie. Considerando i “costi fissi” (di cui parlavo prima) e il livello dei prezzi delle due regioni, la differenza non è più di quasi 9.000 euro, ma inferiore. Dato che è plausibile ritenere che i costi fissi siano più alti laddove crescono i livelli dei redditi, la differenza reale tra le due regioni è sicuramente più bassa.

 

Il federalismo fiscale, che è un altro pilastro della riforma fiscale che ha in mente Tremonti, potrà aiutare a diminuire ulteriormente queste differenze? Oppure si rischierà di avere delle regioni in cui si pagano meno tasse e che attireranno più cittadini?

 

Il federalismo fiscale ha una conseguenza positiva e fondamentale: collegare la responsabilità della spesa con le entrate, facendo sì che le regioni possano diventare più efficienti. Potrebbe anche accadere che alcune regioni siano fiscalmente più convenienti e i cittadini potrebbero esprimere le loro preferenze “votando con i piedi”, come dicono gli economisti, cioè spostandosi dove si pagano meno tasse. Questa però sarebbe una virtù e non un problema. Se poi le infrastrutture come l’alta velocità aiuteranno i collegamenti tra grandi città si potrebbe pensare di risiedere in una regione e lavorare in un’altra, creando un incentivo alla mobilità del lavoro, oltre che a quella dei contribuenti.

 

Il terzo pilastro della riforma fiscale è la lotta all’evasione. Tremonti ha sottolineato che nel 2009 sono stati recuperati 9 miliardi di euro: una cifra ancora modesta rispetto all’entità del fenomeno. Pensa che l’idea del ministro di inviare ai contribuenti dichiarazioni dei redditi pre-compilate a casa possa dare un mano in questo senso?

 

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Questa formula viene già utilizzata negli Stati Uniti: si riceve la dichiarazione dei redditi a casa, si controlla che i dati siano esatti e si versa il dovuto. Può anche capitare che i conti non siano a posto e il contribuente lo fa notare. Certamente questo accade solo se vi è un errore che permette di pagare meno tasse! Se questo dovesse avvenire solo nel 5% dei casi non sarebbe un dramma, ma se si arrivasse al 30% sarebbe un problema.

 

Perché?

 

Mi spiego con un esempio: poniamo il caso che io sia un lavoratore autonomo e stia guadagnando 100.000 euro all’anno in nero. Mi vedo recapitare a casa una dichiarazione pre-compilata con un reddito anche superiore alla media (che i dati comunicati ieri dicono aggirarsi intorno ai 39.000 euro). Potrei quindi pagare le tasse su quella cifra, essere al posto con il fisco, avendo però evaso qualcosa come 60.000 euro.

 

Significa quindi che questo strumento non è adeguato?

 

Si tratta di uno strumento straordinario, perché semplifica. E la semplicità è un grande segnale di democrazia. Non deve però diventare occasione per creare distorsioni, per fare in modo cioè che l’evasore trovi anche un buon alibi per sentirsi a posto con la coscienza e con lo Stato, soprattutto in Italia dove l’evasione fiscale è già una piaga. Quello della dichiarazione pre-compilata è quindi un mezzo adatto a un sistema che ha già ricondotto il fenomeno dell’evasione entro termini ragionevoli. E questo non è il caso dell’Italia.

 

Dove occorre allora intervenire per contrastare l’evasione fiscale?

 

Sul “nero” che deriva dalle importazioni, tanto più che il nostro paese dipende molto dall’import. Mi risulta che molto nero nasca, per esempio, dal fatto che arrivano tanti container cinesi nei porti italiani, senza versamento di Iva. Bisogna quindi aumentare i controlli alle dogane, anche perché non si sa che valore abbiano quelle merci, che, oltre a non essere rilevate fiscalmente, sono anche illecite e quindi sfuggono nel computo del Pil. Il nero può nascere anche in un sistema di filiera, nei diversi passaggi di lavorazione di un prodotto: basta pensare, per esempio, al settore agricolo. Chi mai andrà controllare qual è stata la resa effettiva di un ettaro di terreno coltivato a pomodori?

 

Secondo lei la riforma fiscale si potrà fare in tre anni come prospettato da Tremonti?

 

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Me lo auguro, anche se non sarà facile mantenere l’impegno. Ripeto: si tratta di una riforma desiderabile, ma un cambiamento di questo genere può ragionevolmente incontrare ostacoli in quella che definirei “la tirrania dello status quo”, ovvero l’opposizione di settori che potrebbero essere penalizzati dal cambiamento. È questo che purtroppo tiene ingessato il nostro paese. Inoltre, il momento congiunturale attuale non è forse il più favorevole per andare a focalizzare le imposte sui consumi, che dovrebbero essere invece favoriti.

 

Tremonti ha detto che questa sarà “la riforma delle riforme”. È d’accordo?

 

Si tratta di un cambiamento importante, ma la riforma delle riforme dovrebbero un disegno più grande per evitare il lento declino, o se vogliamo usare un termine meno negativo la crescita minima o lenta, del nostro paese. Basti pensare che segni di ripresa si vedono ovunque nel mondo, ma non ancora in Italia. Probabilmente arriveranno tra qualche mese. Ci sono poi dati negativi come il 30% di disoccupazione giovanile o il fatto che il laboratorio di ricerca Glaxo abbia lasciato Verona. Non voglio con questo essere pessimista, ma nemmeno essere tra chi pecca di ottimismo. La riforma fiscale può essere un passaggio cruciale di quella che ritengo la riforma delle riforme. A patto però che in ogni passaggio ci si chieda se le misure che si vogliono introdurre rispondono a quelle che definirei le tre stelle polari da seguire: semplicità, equità e maggior opportunità di sviluppo economico.

 

Il Professor Ugo Arrigo, docente di finanza pubblica, mi raccontava che quando era consulente del Tesoro furono fatti tagli alla spesa pubblica e aumentate le tasse (tra cui la tantum sui depositi bancari) per permettere all’Italia di entrare nell’euro. Ora siamo tornati a una pressione fiscale ai livelli del 1997 (intorno al 43,5%) e a un debito pubblico simile a quello del 1993. Non sarebbe il caso di intervenire sulla spesa pubblica anche per finanziare i “costi” del quoziente famigliare e del taglio dell’Irap?

 

Certamente vi sono molti costi nell’apparato statale che potrebbero essere ridotti. Basti pensare a tutto il nostro passato pieno di trasferimenti inefficienti al Sud: con tali somme si poteva probabilmente finanziarie un secondo Stato. Non dimentichiamo poi che negli anni dell’adesione all’euro, in Italia si era creato “l’eurodividendo” generato da minori interessi sul debito pubblico. Si è dibattuto per tanto tempo su come utilizzarlo, ma poi è sparito: come siano stati utilizzati quei soldi nessuno lo sa. Stessa cosa per il famoso “tesoretto” che il Governo Prodi avrebbe lasciato in eredità all’attuale esecutivo nel 2008. Il nuovo governo Berlusconi, una volta insediatosi, disse che non esisteva più. Che fine hanno fatto quei soldi? Speriamo ora che i proventi dello scudo fiscale possano essere utilizzati in qualche modo prima di sparire nel nulla.

 

(Lorenzo Torrisi)

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