Il Convegno di Confindustria di Parma dello scorso fine settimana su Libertà e benessere. L’Italia al futuro, che ha celebrato i 100 anni dell’associazione degli industriali, ha avuto il merito di porre al centro dell’attenzione dei media e della politica il mondo concreto e reale della produzione e dell’imprenditorialità che crea ricchezza per tutti. Si tratta di una iniziativa meritoria, particolarmente apprezzabile in un momento in cui la politica sembra invece più interessata a litigare piuttosto che a unire le forze per superare un momento ancora assai difficile.



Molti, e tutti interessanti, sono i temi emersi nel corso dei due giorni di incontri e relazioni: dalla constatazione della sostanziale tenuta, nell’anno appena trascorso, dei distretti e delle piccole imprese, all’emergere sempre più forte di quel quarto capitalismo fatto di medie imprese in grado di coniugare il tradizionale legame con il territorio della nostra imprenditorialità, con la capacità di competere efficacemente in uno scenario sempre più globale.



E ancora: l’importanza attribuita dai nostri imprenditori alla capacità di investire, di innovare e internazionalizzarsi. Forte è stata anche l’enfasi sulla necessità delle riforme: la riforma fiscale, con l’introduzione di sgravi fiscali per le aziende e i lavoratori e una lotta più serrata all’evasione fiscale (in un Paese in cui meno dell’1% dei contribuenti dichiara redditi superiori ai centomila euro), la non più rinviabile riqualificazione della spesa pubblica e la riforma energetica con il ritorno al nucleare.

Ma lo spunto forse più interessante e innovativo di tutto il Convegno (ripreso anche nel titolo) è venuto dal rapporto sulla libertà di intrapresa in Europa, elaborato dall’Istituto Bruno Leoni (Ibl) per conto di Confindustria, dal quale emerge come l’Italia sarebbe ultima in Europa per la libertà di attività economica.



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Sebbene sia necessario prendere queste classifiche sempre con molta prudenza, perché i risultati dipendono in modo marcato dalla composizione dell’indice utilizzato per elaborare la classifica finale, ovvero da quali sottoindici si considerino e dal peso attribuito agli stessi, tuttavia le conclusioni che vedono l’Italia in coda sia per quanto attiene alla libertà dal fisco, alla libertà dallo Stato, alla libertà dalla regolazione, dipingono un quadro sul quale è necessario che tutti (istituzioni, partiti, sindacati, ecc.) riflettano attentamente, perché il problema è serio e va affrontato rapidamente e concretamente. Perché non c’è dubbio che libertà e benessere sono fortemente correlati.

 

 

Ma quale è davvero la libertà che vogliono i nostri imprenditori? E’ solo libertà da qualcosa? In effetti, sebbene concordiamo con molti dei risultati del rapporto dell’Ibl, e anche con molte delle proposte contenute nel documento stesso, tuttavia l’impostazione complessiva della ricerca ci lascia piuttosto perplessi. E i dubbi derivano dai fondamenti antropologici alla base della definizione di libertà adottata nel lavoro.

Si legge infatti nel capitolo introduttivo del lavoro che ….l’idea di libertà economica può essere abbastanza chiaramente associata con la possibilità per ciascun individuo o impresa di fare l’uso desiderato delle proprie risorse, col solo limite di non aggredire il prossimo o gli altrui diritti. Quindi, la libertà economica tendenzialmente è maggiore laddove siano minori i vincoli non strettamente necessari al libero dispiegarsi dell’iniziativa individuale

Si tratta di una definizione di libertà che non ci convince (e che, a pensar male, potrebbe anche essere utilizzata in modo strumentale a danno degli stessi imprenditori) perché non considera come accanto ad ogni libertà debba esservi sempre una corrispondente responsabilità. Non è probabilmente un caso se il termine “libertà” compare nel documento ben 187 volte (in 19 pagine di testo) mentre il termine responsabilità è completamente assente in tutta la ricerca (letteralmente, nel senso che compare 0 volte). E probabilmente non è nemmeno casuale che in testa alla classifica della libertà economica si collochi l’Irlanda, ovvero uno dei Paesi che più hanno tratto giovamento dalla euforia pre-crisi e che più stanno soffrendo oggi per le conseguenze di comportamenti scarsamente responsabili.

 

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Anche il riferimento “al libero dispiegarsi dell’iniziativa individuale” mostra come all’imprenditore sia attribuita una soggettività puramente individuale, e non personale e relazionale, dimenticando così come l’imprenditorialità sia un’attività in cui la capacità di porsi in relazione con gli altri è invece assolutamente predominante: anche nel mondo delle imprese vale la regola che da soli di strada se ne fa poca mentre assieme si può andare lontano.

La grande forza dimostrata dalla nostra imprenditorialità in questi due anni di grave crisi è derivata, a nostro avviso, proprio dalla straordinaria capacità di imprenditori e lavoratori di cooperare e fare squadra, affrontando assieme e condividendo le impressionanti difficoltà di una congiuntura particolarmente avversa. Un livello di disoccupazione ancora contenuto e il sostanziale mantenimento della capacità produttiva sono segni evidenti di questa capacità di dare forza alle relazioni.

La nostra sensazione è che la libertà che vogliono gli imprenditori consista nella richiesta di poter agire liberamente responsabilmente piuttosto che nella pretesa di poter fare quello che vogliono. Avendo anche ben chiaro che accanto al “limite di non aggredire il prossimo o gli altrui diritti” c’è anche il dovere di pensare e agire per la propria impresa, per la propria comunità, per il proprio territorio, in un’ottica di lungo periodo. Questi sono i veri vincoli della libertà responsabile.

Di tutta la zavorra ulteriore che frena la nostra imprenditorialità, a cominciare da uno Stato spesso invadente e sempre burocratico, dobbiamo oggi liberarci. Lo impone una situazione che resta fragile e incerta. Nella certezza, come è stato più volte ripetuto a Parma, che se cresce l’industria cresce il Paese.