Emma Marcegaglia lo ha chiesto esplicitamente al Governo: occorre una riforma fiscale. Richiesta che arriva anche dai cittadini attraverso i sondaggi e dall’appello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Del resto lo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti lo hanno promesso: nel prossimo triennio ci sarà un cambiamento nel sistema fiscale. Ma Confindustria, complice l’ultimo Forum tenuto venerdì e sabato a Parma, chiede che si faccia subito qualcosa per diminuire la pressione fiscale, individuata come la vera zavorra del sistema produttivo italiano. Con Guido Gentili, editorialista de Il Sole 24 Ore, quotidiano della principale associazione imprenditoriale italiana, abbiamo cercato di capire le ragioni delle imprese e le reali possibilità del Governo di rispondervi.



Nell’ultimo periodo le richieste di una riforma fiscale arrivano da ogni fronte. Il Governo si trova dunque senza via di scampo, dovrà per forza intervenire.

Certamente, del resto la riforma del fisco e l’abbassamento della pressione fiscale conseguente è uno dei capisaldi del programma elettorale con cui Berlusconi ha vinto le elezioni nel 2008. Si tratta ora di capire come si può precedere realisticamente per raggiungere tale obiettivo. La riforma fiscale e un nuovo patto tra fisco da una parte e contribuenti dall’altro sono emergenze cui va data una risposta.



Per ora quella di Tremonti è una riforma del sistema impositivo, che però lascia invariata la pressione fiscale, attualmente superiore al 43%.

Tremonti ha messo in sicurezza i conti pubblici, ha fatto un buon lavoro come gli ha riconosciuto a Parma Trichet e come evidenziato da diverse istituzioni internazionali. Certo, il rapporto deficit/Pil è arrivato nel 2009 al 5,2%, ma in altri paesi europei le cose vanno peggio (per esempio in Gran Bretagna ha superato l’11%). Non è quindi un risultato da poco per l’Italia. All’interno di questo quadro è però intollerabile non poter fare nulla nei prossimi anni in termini di riduzione della pressione fiscale. Non possiamo aspettare il 2015-2016 quando il federalismo fiscale entrerà a regime per avere risultati concreti. Entro il 2013, quindi, la pressione fiscale va portata senz’altro sotto la soglia del 43%.



La strada per ottenere questo risultato è quella indicata da Emma Marcegaglia, cioè diminuire la spesa pubblica?

Certamente. Non dobbiamo dimenticare da quale situazione partiamo: abbiamo un’aliquota marginale sul reddito d’impresa intorno al 33%, superiore di 10 punti percentuali alla media europea. Cosa che pesa anche sulla competitività internazionale dei nostri prodotti.

Dal progetto di riforma di Tremonti resta fuori il quoziente famigliare. In una recente intervista, il Professor Muraro proponeva l’introduzione di deduzioni fiscali per sostenere le famiglie. Cosa ne pensa?

Il quoziente famigliare è un altro dei capisaldi del programma elettorale della maggioranza. Capisco che sia un intervento molto costoso, ma un segnale va dato. Quello delle deduzioni dall’imponibile può essere un passo in questa direzione. Mi rendo conto in ogni caso che questo è un terreno che scotta. L’ultimo rapporto Cisf (Centro internazionali studi famiglia) contiene dati impressionanti e non si può far finta di niente, anche perché aiutando le famiglie si possono stimolare i consumi.

 

Ritornando alle imprese, secondo lei è necessario ridurre Irap e cuneo fiscale per dar loro sollievo?

 

L’Irap serve a finanziare la sanità e il gettito che fornisce è di oltre 35 miliardi di euro: non possiamo immaginare che si possa cancellare da un giorno all’altro. Qualcosa sul cuneo fiscale si potrebbe invece fare, anche perché in questo campo l’Italia primeggia negativamente nelle classifiche europee. In ogni caso ritengo che le imprese medie, che si sono dimostrate le più reattive alla crisi, le più parsimoniose dal punto di vista finanziario, e quelle che hanno fatto più innovazione, vadano aiutate, perché hanno trainato l’economia in questa difficile fase.

 

Non teme che la riforma fiscale di Tremonti, facendo passare il carico impositivo dalle persone alle cose, quindi dall’Irpef all’Iva, possa creare un ulteriore peso per le imprese?

 

Questo passaggio è un punto fondamentale del Libro Bianco di Tremonti scritto nel 1994. Certamente la tassazione sulle persone è ormai a livelli intollerabili, quindi in linea di principio è giusto questo trasferimento di carico fiscale. Tuttavia andrà valutato bene l’impatto che potrà avere sulle imprese un’eventuale aumento dell’Iva.

 

Un altro punto importante della riforma fiscale riguarda il federalismo. Quali vantaggi potrà portare?

 

Questa riforma è strettamente legata con quella del federalismo fiscale, che è davvero la madre di tutte le riforme. Non dimentichiamo che nel disegno di legge delega approvato in materia si prevede testualmente che la pressione fiscale debba essere abbassata. È fondamentale quindi che il federalismo porti a una riduzione della spesa pubblica e non a una sua crescita.

 

Lei ha parlato della necessità di un nuovo patto fiscale con i contribuenti. Che cosa dovrebbe prevedere?

 

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Tremonti ha dichiarato in passato che ogni euro recuperato dall’evasione dovrà essere usato per abbassare la pressione fiscale. Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo assistito a notevoli recuperi dall’evasione e mi aspetto che vengano appunto utilizzati per diminuire la tassazione. Mi rendo anche conto che in un paese con 8 milioni di partite Iva e in cui è diffuso il lavoro nero sia difficile, come dice Tremonti, fare controlli. Anche perché per molti lavoratori autonomi o microimprese evadere è l’unico modo per competere e sopravvivere sul mercato. Però, dato che solo i lavoratori dipendenti pagano le tasse fino all’ultimo centesimo, fa poi specie vedere dai dati dell’Agenzia dell’entrate che esistono professionisti che dichiarano al fisco cifre irrisorie. Il concetto chiave del patto deve essere quindi: pagare tutti per pagare meno. Il patto deve anche prevedere una semplificazione delle procedure fiscali che offra alle imprese più libertà dalla burocrazia.

 

La maggior parte dell’evasione arriva, come lei diceva, dal lato dell’Iva, quindi delle imprese e dei lavoratori autonomi. Come fare per convincerli a siglare questo patto fiscale?

 

Le imprese e i lavoratori autonomi che evadono dovrebbero capire che sarà conveniente anche per loro far parte del sistema “legale”. Il fisco può infatti finanziare servizi migliori, come per esempio quelli della pubblica amministrazione di cui molte imprese si lamentano.

 

Nel recente rapporto curato dall’Istituto Bruno Leoni che Confindustria ha presentato in occasione del Forum di Parma, si parla della necessità di “interventi efficaci e anche impopolari”. A che cosa si fa riferimento in particolare?

 

Penso che il riferimento sia al taglio della spesa pubblica. Le risorse per abbassare la pressione fiscale non possono essere infatti create dal nulla. Dobbiamo tenere a mente che abbiamo perso oltre 6 punti di Pil dall’inizio della crisi (2008) e che ne abbiamo persi 15 rispetto alla media europea dal 1992 al 2007, mentre il debito pubblico è già arrivato a quota 117% del Pil. Quindi occorre tagliare la spesa pubblica. Capisco che sia difficile, ma questa è la palla al piede che ci portiamo dietro da anni. Occorre quindi una Pubblica amministrazione meno inefficiente, una riforma delle pensioni, dato l’invecchiamento della popolazione, e una diminuzione degli sprechi nell’Università.

 

In un suo recente articolo, lei ha scritto che occorre mettere fine alla “finanza derivata”. Cosa intende indicare con questo termine?

 

In Italia abbiamo un sistema, nato dalla riforma costituzionale del 2001, che assegna agli enti locali capacità di spesa, senza però dargli possibilità di raccogliere entrate, che sono rimaste al centro. Il centro si trova quindi a dover pagare spese di cui non conosce spesso l’effettivo ammontare. Lo Stato finisce quasi per pagare a piè di lista (per esempio quando ripiana i deficit regionali nella sanità). La finanza derivata è quindi questa finanza irresponsabile e speriamo che il federalismo fiscale possa porvi fine.

 

Le imprese sono state messe a dura prova dalla crisi. Secondo lei, a parte un fisco più leggero, di che cosa hanno bisogno?

 

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I bilanci 2009 delle imprese mostrano una situazione peggiore rispetto al 2008, quando la crisi era appena iniziata. Oggi vediamo dunque gli effetti che la crisi ha avuto sull’occupazione, tenendo presente che la situazione dell’Italia è migliore rispetto ad altri paesi europei. Come dicevo prima dobbiamo aiutare quelle imprese che hanno dimostrato di reggere anche durante la crisi. Dobbiamo però anche aprire gli occhi di fronte alla realtà.

 

In che senso?

 

Mi riferisco ai casi di aziende che non possono più stare in piedi. Un esempio lampante è quello dello stabilimento di Termini Imerese: adesso è inutile che lo Stato pensi a sovvenzioni, perché non potrà renderlo produttivo. Meglio riconvertire quell’area con capitali anche esteri, sfruttando magari zone franche dal punto di vista fiscale.

Tornando alla domanda di partenza, gli interventi dovrebbero riguardare il cuneo fiscale (con vantaggi anche per i lavoratori) e la semplificazione, cercando di sfoltire la giungla fiscale che imprese e cittadini devono affrontare. La cosa migliore è concentrarsi su pochi ma mirati interventi, piuttosto che scegliere la strada di incentivi a pioggia come quelli da 300 milioni di euro recentemente approvati

 

Il forum di Confindustria ha fatto registrare un record di presenze di imprenditori. Tuttavia nel corso del 2009 i fenomeni dei “contadini del tessile” o delle “imprese che resistono” hanno forse evidenziato un problema di capacità di rappresentanza delle associazioni imprenditoriali. Confindustria si sta muovendo per recuperare questo deficit?

 

Tutte le associazioni imprenditoriali e anche sindacali stanno attraversando un momento particolare. Confesercenti, Confcommercio e Confartigianato stanno studiando forme di federazione o di unità. In Confindustria è aumentato il peso delle piccole e soprattutto medie imprese rispetto alle grandi. Nel frattempo cresce il fenomeno (soprattutto al Nord) delle Pmi che decidono di non andare in Borsa, che non sono interessate ad avere una struttura finanziaria troppo “innovativa”, quindi esposta alle turbolenze dei mercati, e che preferiscono uno sviluppo interno di carattere famigliare. Il problema per tutte le associazioni di categoria è che rappresentanza dare a questa realtà nuova che si sta consolidando nel Paese.

 

È anche a questo che si deve il successo elettorale della Lega Nord a cui Emma Marcegaglia ha rivolto sabato un appello?

 

Certamente. La Lega è un partito ben radicato sul territorio da sempre. Ha quindi capito forse prima di altri cosa stava capitando. Per esempio, nel campo dell’agricoltura, spesso trascurato, la Lega ha subito messo in campo interventi mirati e precisi anche in difesa del Made in Italy e dei prodotti locali. In questo è stata bravissima, riuscendo ad avere un feeling migliore con il territorio rispetto ad altri partiti.

 

(Lorenzo Torrisi)