Il tema è sempre quello: le riforme. Ora la stabilità politica dovrebbe permettere alla maggioranza di governo di farle per davvero. Su tutte, due sono centrali: fisco e federalismo. Entrambe dovrebbero permettere finalmente all’Italia di aumentare la crescita. Non è però solo un problema economico. «C’è un’ideologia – ha scritto su Repubblica l’economista Tito Boeri – che sta alla base di questa difesa dello status quo che si produce nell’economia del nord del Paese. Si chiama “ritorno al territorio”, teorizzato sia dalla Lega che dalle nostre maggiori banche».
È invitabile dunque che la crescita, dopo le elezioni regionali che hanno visto la netta affermazione della Lega al nord, diventi anche un problema politico. «Facciamo sì le riforme – dice Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison – ma senza attaccarci, per favore, a confronti su statistiche che più passano i giorni, più suscitano dubbi».
Il problema del paese continua ad essere la bassa crescita e la scarsa produttività. Secondo lei però è un problema che va collocato nel giusto contesto: perché?
Stiamo finendo una ricerca che va ad analizzare la crescita del Pil nel medio lungo termine – parlo degli ultimi 15 anni -, in base alla quale anche su Francia a Germania, e non solo sui paesi della bolla, è lecito nutrire dei dubbi. Se andiamo a vedere la crescita del fatturato dell’industria italiana in valori correnti vediamo che è decisamente migliore di quello della Germania e della Francia. Poi non si capisce come mai, trasformando i dati in valori correnti a valori costanti, saltano fuori tassi di crescita che ci vedono molto più indietro di Francia e Germania. Qualcuno ha sbagliato qualcosa.
Quali conclusioni ne trae?
C’è un problema nelle statistiche che mi fa pensare che la più bassa crescita dell’Italia in questi anni sia stata più apparente che reale, perché le nostre esportazioni sono cresciute di più di quelle di Francia e Germania. E proprio nel corso degli ultimi anni, che alcuni economisti hanno preso come riferimento per argomentare la tesi della bassa crescita.
Dunque non stiamo poi così male.
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Nel periodo 2005-2008 siamo cresciuti più di tutti gli altri paesi del G6, sia in valore che in volume. Non credo dunque che l’Italia sia un paese a così bassa crescita. Certo è che chi cresceva il doppio di noi, prendeva il «doping». La droga di un modello di sviluppo insostenibile.
Morale?
Tra un’impresa che cresce del 10 per cento l’anno e che poi dopo alcuni anni porta i libri in tribunale, e un’impresa che cresce dell’1 per cento nel tempo e senza indebolirsi, io preferisco la seconda alla prima. E mi ricordo pure di economisti – anche italiani – che celebravano la maggior crescita della Grecia rispetto a quella dell’Italia.
E la «guerra dei dati»?
Mi chiedo se non sia il caso di fare una bella revisione storica di quello che è successo con la crisi, sia alla luce della crescita drogata di debiti delle economie che sono scoppiate con la bolla, sia della crescita dei paesi dell’Europa «core» – della fascia centrale di paesi che vanno dal nord al sud dell’Europa – alla luce di una dinamica dei deflatori con un po’ più di aderenza alla realtà di quanto non sembri guardando i dati di Eurostat.
A Parma le imprese hanno chiesto per l’ennesima volta una riduzione della pressione fiscale. Cosa dice della «ricetta Tremonti», basata sul passaggio del carico dalle persone alle cose, dall’Irpef all’Iva?
In qualunque paese del mondo la riforma delle riforme è quella fiscale. Al momento di questa riforma sono stati annunciati alcuni possibili principi generali, che sembrano ottimi. Ma è una riforma difficile, richiederà tempo e una larga convergenza di intese tra le forze politiche. Se il governo, come sta facendo, apre al confronto, le premesse per riuscire ci sono.
Cosa pensa, nel merito?
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I principi sono buoni perché occorre cercar di riavvicinare la ricchezza reale degli italiani alle entrate. E delle entrate al territorio. Non è normale che solo l’1 per cento degli italiani dichiari un reddito superiore ai 100mila euro o poco più. Qualcosa non va, se abbiamo la ricchezza procapite netta, reale e finanziaria, più alta di qualche decina di migliaia di dollari della Gran Bretagna e addirittura di 50mila dollari procapite più degli Usa.
Ha vinto le elezioni chi ha saputo parlare alle Pmi. Qui però le analisi si dividono: per Tito Boeri la maggioranza ha conquistato il Nord con tanti piccoli «rubinetti discrezionali» gestiti da politici locali, Lega in primis. Per Dario Di Vico la Lega ha saputo interpretare e sfruttare – senza capire fino in fondo – il movimento «molecolare» dei “piccoli”.
Ho l’impressione che entrambe le teorie abbiano qualche elemento di fondatezza, ma al tempo stesso non siano del tutto aderenti alla realtà. E che la rivolta dei piccoli, delle partite Iva, della “pancia”, non ci sia stata per niente, perché i distretti industriali hanno visto rafforzarsi enormemente la Lega ma anche, in molto casi, lo stesso Pdl. In molte zone importanti del paese sommando Lega e Pdl abbiamo il 70-80 per cento dei voti delle regionali. Allo stesso modo, non mi pare che si possano ottenere questi risultati solo con i fantomatici «rubinetti».
Lei come spiega il successo della Lega nell’area economicamente più importante del paese?
Penso che le ragioni del successo della Lega e più in generale del centrodestra siano dovute al fatto che questi partiti, da alcuni anni, sostengono alcune cose molto chiare. Una di queste è che la concorrenza cinese è stata spietata e asimmetrica, che si sarebbe dovuto fare qualcosa e tra queste spingere perché la Cina rivedesse il cambio. Ora la Cina lo sta facendo, ovviamente su pressione non nostra ma degli Stati Uniti. A noi purtroppo serviva che il cambio fosse rivisto sei anni fa e non nel 2010. Qualcuno però doveva dirlo.
Il centrodestra?
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Sì. I cosiddetti piccoli, e non solo loro, sanno benissimo che Bossi e Tremonti dicono queste cose da dieci anni, esattamente come dicono che la concorrenza asimmetrica cinese è un danno per l’Italia, mentre il centrosinistra ha sempre detto che era una grande opportunità. E poi gli sprechi. I mille rivoli di denaro pubblico che vanno sprecati sono quelli ai quali il federalismo fiscale dovrebbe porre un rimedio. È una battaglia del centrodestra, e il fatto che il centrosinistra non l’abbia capito non favorisce il suo feeling con le partite Iva.
Boeri ha scritto che il «ritorno al territorio» teorizzato sia dalla Lega che dalle nostre maggiori banche «è solo tutela delle posizioni di potere conquistate». Occorrerebbe una nuova rapida «allocazione delle risorse» ma «questo è il compito che possono svolgere i mercati finanziari»…
Che i mercati finanziari siano in grado di allocare meglio le risorse ho seri dubbi. Veniamo da un periodo in cui i mercati finanziari di Usa e Gran Bretagna hanno sì allocato le risorse, ma in truffe, perché il boom finanziario immobiliare americano e inglese che cos’è stato? Si sono prestati soldi a persone che non potevano riceverli sulla base di normali garanzie di controparte, questi debiti sono stati impacchettati e rifilati a ignari signori che hanno finanziato delle porcherie senza saperlo. Riallocare va bene, bisogna vedere in che modo.
Cosa bisogna fare dunque?
Le risorse vanno riallocate a vantaggio dei settori produttivi, attraverso un federalismo fiscale dove chi incassa deve rendere conto, in termini di efficienza e davanti agli elettori, di come spende. Questo per le risorse pubbliche. Mentre per aumentare le risorse private bisogna cercare di accrescere le dimensioni delle nostre medie imprese, anche aiutandole a far acquisizioni all’estero. Fare infrastrutture per aumentare l’efficienza del paese, fare ricorso al nucleare per dipendere meno dall’energia importata e avere costi comparabili con quelli dei nostri concorrenti. È qui che occorre allocare.