Come si sa bene, l’Italia è un paese di piccole e medie imprese (Pmi), le grandi sono meno del 2% del totale. Questo è un dato di fatto, dal quale non si può prescindere. In molti casi, fino a oggi, la piccola/media dimensione ha costituito più un punto di forza che uno svantaggio. Ciò ha permesso alle nostre imprese di sviluppare un modello di specializzazione basato sulla flessibilità dell’offerta rispetto alla maggiore rigidità dei principali concorrenti in ambito internazionale.



Per esempio, il comparto delle macchine utensili, macchine industriali necessarie per la lavorazione dei metalli, rappresenta molto bene lo spaccato del made in Italy. Questo, fatta eccezione per il segmento dei così detti beni di lusso, è principalmente basato sulla capacità di produrre prodotti altamente customizzati, cioè fatti secondo le specifiche esigenze dei clienti. Diversamente, i principali competitor del nostro paese, come il Giappone e la Germania, offrono nel mercato macchine non customizzate, ma, solitamente, maggiormente innovative. In tale ambiente, facilitati anche da un prezzo abbastanza competitivo, si è inserito il made in Italy.



L’attuale crisi economica sta evidenziando la debolezza di tale paradigma di sviluppo economico-industriale, per cui occorre trovare “nuove” soluzioni. Prima, però, è necessaria una precisazione. Si sente dire, sempre più spesso, che in Italia ci sono troppe Pmi. Questa non è certo una colpa delle piccole imprese, ma della grande industria italiana che è composta da poche grandi imprese!

Negli ultimi venti anni, di fatto, si è assistito alla scomparsa di molte grandi imprese, basta pensare alla Olivetti o alla Montedison, un tempo tra i leader dei rispettivi settori. Tornando sulla piccola/media dimensione d’impresa, occorre dire che questa ha dei vantaggi, ma anche dei punti di debolezza. Attualmente, proprio questi ultimi sembrano prevalere sulle potenzialità derivanti dalle piccole dimensioni.



Tra i limiti delle Pmi ne ricordiamo solo alcuni, ma sicuramente i principali: difficoltà a reperire risorse finanziarie, incapacità a sostenere investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti/processi produttivi, scarso utilizzo di strumenti manageriali sofisticati, dal controllo di gestione al just in time, assenza dei benefici dati dal risparmio di costi provenienti dal possesso di economie di scala.

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Dato tale contesto, quali soluzioni possono essere proposte per le imprese Italiane? E inoltre, è possibile salvaguardare la ricchezza imprenditoriale del nostro paese, data proprio dalla piccola/media dimensione, ma allo stesso tempo rafforzarla per renderla in grado di fronteggiare il mercato competitivo mondiale, ormai cambiato?

 

L’esperienza del Consorzio Servizi Sociali (CSS) di Busto Arsizio fornisce un utile esempio di come è possibile godere dei vantaggi dati dalla grande dimensione pur rimanendo piccole imprese. A oggi, il Consorzio è costituito dalle cooperative sociali Solidarietà e Servizi, City Service, Solidarietà e Lavoro, Domus Opere e Età Viva, che hanno come mission di condividere il bisogno delle persone progettando, realizzando servizi e offrendo opportunità di lavoro.

 

Le cooperative hanno come scopo quello di perseguire l’interesse generale della comunità, la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi oppure lo svolgimento di attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (tipo gli invalidi fisici, quelli psichici, i tossicodipendenti, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione, e altri).

 

Oltre che con i soci, il Consorzio ha rapporti e legami stabili con il Consorzio Lepanto (consorzio sociale che si occupa di trasporto disabili negli aeroporti) e la Cooperativa Incontro (cooperativa di produzione e lavoro che si occupa di servizi ambientali e generali). Nel 2009 il Consorzio, cioè l’insieme delle cooperative che vi fanno riferimento, ha fatturato circa 28 milioni di euro e ha dato lavoro a circa 2.300 persone. Vedendo tali dati si direbbe, “ma cosa c’entrano le Pmi poiché questi sono numeri da grande impresa?”.

 

Ecco la risposta. Il consorzio è nato nel 2004 e nel 2003 le cooperative che vi facevano riferimento fatturavano insieme circa 10 milioni di euro e avevano circa 1.000 addetti, in altre parole numeri da Pmi. Praticamente in sei anni le cooperative consorziate sono cresciute del 180% in termini di fatturato e del 130% in numero di addetti. Tale incremento è stato permesso proprio dal Consorzio che ha fatto da volano alle proprie cooperative.

 

In questi anni le singole imprese si sono concentrate nei rispettivi core business, mentre il Consorzio ha svolto le funzioni comuni, quali: amministrazione e finanza, gestione del personale, qualità, sicurezza e privacy, legale e appalti, affari generali, ICT, formazione, gestione eventi, servizi generali. Le singole cooperative, focalizzandosi sulle proprie attività, si sono specializzate aumentando l’efficienza, la qualità del lavoro e dei servizi forniti.

 

Gli uffici di staff del Consorzio hanno permesso da un lato la riduzione dei costi, grazie alla ripartizione dei costi fissi tra più cooperative, e dall’altro l’innalzamento della qualità e delle capacità gestionali, facilitati dall’aumento del know-how per la maggiore massa critica. I risultati che le singole cooperative si sono trovate a ottenere non sarebbero mai potuti essere raggiunti singolarmente in un periodo così ridotto.

 

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Detto ciò, sembrerebbe tutto risolto: è sufficiente promuovere lo sviluppo di consorzi d’imprese per rilanciare il made in Italy. Non è così! Infatti, insieme all’esperienza di successo del presente consorzio, ce ne sono tantissimi altri che sono falliti, risultando dei veri e propri esempi d’insuccesso.

 

I motivi sono molteplici, ma su tutti ha dominato l’incapacità di molti imprenditori italiani di collaborare e di fidarsi veramente l’uno dell’altro. Invece, la ragione del successo del Consorzio di Busto è riconducibile alla capacità dei suoi imprenditori di fare insieme e di rischiare l’uno sull’altro.

 

Tutto ciò lo descrive bene Domenico Pietrantonio, presidente della cooperativa “Solidarietà e Servizi”, che si occupa di servizi per persone disabili: «È una questione umana, che c’entra con la professionalità e la capacità d’intrapresa. Per noi metterci insieme ha voluto dire non tanto e non solo fare un progetto, ovvero mettere a punto delle strategie di sviluppo, ma partire dal fatto che eravamo amici, quindi da amici abbiamo scommesso innanzitutto sul lavorare insieme, sul nostro desiderio di crescere e svilupparci. In tutte le organizzazioni ci sono dei problemi, delle esigenze, ma quando ci si mette insieme avendo a cuore questo livello, il tutto è guardato da un altro punto di vista».

 

Questa amicizia ha avuto la capacità di intervenire e di aiutare l’operatività che la gestione di un’impresa richiede. Così Daniele Giani, presidente del CSS, testimonia lo spirito ideale e la forza umana di questi imprenditori: «Fin dall’inizio abbiamo anche investito nella formazione/educazione del nostro personale, perché la professionalità ha un senso se esprime di più la nostra umanità, quindi noi puntiamo molto su questo. Per noi se uno lavora bene è più contento e quindi più se stesso, e quindi più umano. Se uno lavora male, come fa a essere contento? Puntiamo molto anche sulla libertà delle persone, per questo noi facciamo la formazione solo per chi la vuole, perché se uno non vuole essere formato non può essere costretto. Noi vogliamo che la persona realizzi sempre più se stessa attraverso l’esercizio della propria libertà, ma libertà non vuol dire fare quello che ti pare, ma è una responsabilità. Questa deve essere libera, perché se è qualcosa che ti costringe non è vera responsabilità!».

 

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L’esperienza del CSS prima di tutto insegna che i detti popolari del tipo «chi fa da sé fa per tre» oppure «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio» non sono veri. Anzi, in un momento di crisi come questo è necessario che le imprese si mettano insieme per aiutarsi. L’altro aspetto evidenziato è che per stare insieme, senza il sospetto di essere raggirati, occorre qualcosa che regoli i rapporti e che non sia appena un contratto giuridico.

 

Gli imprenditori prima di tutto sono degli uomini, per cui tanto più saranno tali tanto più saranno in grado di capire di chi si potranno fidare e con chi potranno assumere il rischio di fare insieme. Questi aspetti (fiducia, libertà, felicità, ecc.) che sembrano poco concreti rispetto alle problematiche che l’attuale crisi pone, in realtà, sono alla base del successo del caso aziendale appena presentato.

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