Dal D-day di Fiat è arrivata una valanga di numeri. Dati economici, previsioni di vendita, stime di crescita. E tra una cifra e l’altra, una serie di messaggi inviati dall’amministratore delegato Sergio Marchionne alle istituzioni italiane, ai sindacati e al mercato.
Alle prime ha detto chiaro e tondo che il nostro Paese non è più il centro delle scelte economiche del Lingotto e che per continuare a essere preso in considerazione deve essere competitivo sul piano del sostegno all’industria e delle infrastrutture. Ai secondi ha detto, anche qui senza giri di parole, che il Lingotto è disponibile a investire, e molto, nelle fabbriche italiane solo se in cambio avrà la flessibilità e la disponibilità che trova altrove in giro per il mondo.
Al mercato invece ha detto, queste volta tra le righe, che Fiat non è più una possibile preda ma sta diventando un cacciatore, disponibile ad accordarsi con chiunque, ma solo alla pari. L’azienda ha i numeri per correre da sola, ha una dimensione mondiale e disponibilità liquide sufficienti ad affrontare la sfida dei costruttori tedeschi, giapponesi e coreani.
Non è certa di vincere la partita, ma non è sconfitta in partenza. Perché ora è cambiato tutto, o quasi. Rispetto all’assemblea dello scorso anno ci sono i finanziamenti americani, altri quattro marchi, quelli di Chrhysler e Jeep, e un mercato enorme come quello americano. In più ora c’è un uomo solo al comando. Non che Luca Cordero di Montezemolo abbia mai influenzato più di tanto le strategie di Marchionne, ma l’arrivo di John Elkann alla presidenza del gruppo ha saldato definitivamente il patto di ferro tra la famiglia Agnelli e il manager italo canadese, dando a quest’ultimo un potere che nessuno aveva più a Torino dai tempi di Valletta. Un potere che sta usando tutto mettendo l’ultima parola in ogni decisione di una qualche importanza.
Ma l’esito delle sfide che deve affrontare Marchionne in larga parte non dipendono solo dalle sue scelte. Il rilancio del marchio Chrysler negli Stati Uniti ha bisogno del treno della ripresa dei consumi americani, che quasi tutti gli esperti danno quasi per scontata, mentre il crollo delle vendite in Europa e in Italia probabilmente sarà ampiamente compensato dalla crescita del mercato brasiliano che non ha dato finora alcun cenno di cedimento.
Certo negli Usa e in Sudamerica è necessario trovare i prodotti giusti, posizionarli, dare spazio alla rete commerciale per competere e guadagnare in mercati dove sia i marchi americani che quelli giapponesi, coreani e tedeschi sanno perfettamente che ci sono ampi spazi di crescita e la competizione sarà quotidiana e durissima.
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Ma i veri problemi sono altrove. Il primo in ordine di importanza è lo sbarco sul mercato cinese. Marchionne sa perfettamente che a Pechino si sta giocando la partita principale, lì c’è l’unico campionato che conta davvero. L’accordo siglato qualche mese fa con Gac, Guangzhou automotive company, pare un passo decisivo per entrare in gioco, ma altre volte si è giunti a questo punto per poi tornare alla casella di partenza.
Il mercato cinese permette margini di gran lunga superiori a quello europeo e americano, ha pretese molto basse in termini di prodotto e promette spazi di crescita praticamente infiniti. Lo sanno bene Gm, Volkswagen che in Cina ci sono da decenni, hanno più di una joint venture con produttori locali e in quel paese fanno sia i volumi di produzione che i guadagni che gli permettono di puntare alla leadership del mercato mondiale.
Fiat invece, finora è rimasta alla finestra. O meglio ci ha provato e non è riuscita a combinare un gran che. Nella classifica delle marche vendute in Cina figura negli ultimi posti con una quota di pura rappresentanza. Se l’accordo con Gac produrrà gli effetti annunciati l’obiettivo di Marchionne di rientrare tra le sei-sette aziende del settore che sopravvivranno verrà raggiunto. Altrimenti rischia di trovarsi in difficoltà sia sui conti che sui numeri. In questo caso non mi pare si possa ipotizzare neanche un piano B che esiste però in caso di mal parata sull’altro grosso problema che deve affrontare Fiat: Alfa Romeo.
Nonostante la recente presentazione della Giulietta, il marchio del Biscione continua a essere in evidente difficoltà. L’obiettivo di vendere 300 mila auto nel mondo è lontanissimo, l’immagine ha perso smalto e la maggior parte dei prodotti non sono all’altezza di un blasone automobilistico come quello dell’Alfa. Risolvere il problema sarebbe semplice se ci fossero ingenti risorse economiche, miniere tecnologiche all’interno del gruppo da sfruttare o mercati ancora inesplorati da sondare.
Purtroppo non è così. Fiat sull’alto di gamma non è quasi presente, Chrysler non fa quasi auto sportive e le soluzioni adottate per Maserati o Ferrari sono improponibili per una vettura mass market come Alfa. Produrre e vendere negli Usa non è e non sarà facile perché in quel paese e nello stesso segmento stanno investendo un po’ tutti, da Mercedes a Bmw, ad Audi.
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Negli ultimi quattro anni le cose che sono cambiate di più in Alfa Romeo sono gli amministratori delegati (quattro). L’attuale numero uno del Marchio, Harald Wester, ha già la responsabilità di Maserati e dello sviluppo prodotti di tutto il Gruppo e non può fare miracoli. Servirebbe almeno un modello capace di competere con la parte bassa della gamma Bmw o Audi, ma non c’è e non si vede neanche all’orizzonte.
Marchionne ha promesso di investire su Alfa, ma il rischio è quello di dover fare un’auto troppo diversa dalle altre del gruppo per poter rinverdire l’immagine corsaiola del marchio e di ritrovarsi un’auto che costa troppo oppure non produce guadagni. Un problema difficile che potrebbe però avere una soluzione traumatica, ma semplice. Le offerte per acquistare Alfa Romeo non mancano, a cominciare da quella del Gruppo Volkswagen. Sarebbe un peccato, ma non la fine del mondo.