In occasione del convegno organizzato da Adapt e dalla Associazione Amici di Marco Biagi in memoria del professore bolognese a otto anni da suo assassinio, tenutosi un mese fa presso la Biblioteca del Senato, il prof. Michele Tiraboschi ha presentato il Rapporto Adapt 2010, intitolato Gli ammortizzatori sociali in Italia e nel contesto internazionale e comparato, curato dallo stesso Tiraboschi con la collaborazione di Silvia Spattini, Barbara Winkler e Michele Zagordo e il sottoscritto.



Il dibattito, che ha coinvolto anche il Presidente del Senato Renato Schifani e il Ministro Maurizio Sacconi, oltre che Raffaele Bonanni, Alberto Bombassei, Antonio Mastrapasqua e Natale Forlani, è stata l’occasione per “fare il punto” sullo stato degli ammortizzatori sociali italiani, in un periodo nel quale sono tanto utilizzati, quanto criticati, soprattutto da una certa intellighenzia illuminata e molto chic.



A ben vedere, però, le tesi che dipingono gli ammortizzatori sociali italiani come strumento inefficiente e discriminante le tipologie contrattuali deboli e atipiche sono contraddette dai dati, anche quando letti in ottica comparata. Queste posizioni critiche, semplificando, propongono un’estensione dei trattamenti di disoccupazione attraverso il superamento del sistema della cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga, da sostituirsi con il “celebre” (quantomeno nel dibattito scientifico/economico) sussidio unico di disoccupazione.

Eppure, in particolare in questo periodo di crisi, gli economisti hanno calcolato che gli strumenti di sospensione del lavoro come la cassa integrazione hanno garantito all’Italia una positiva protezione dell’occupazione, stimabile attorno ai due punti e mezzo percentuali di disoccupazione evitata (8,5% contro l’11% che si sarebbe avverato senza questo tipo di strumenti).



La cassa integrazione, di fatto, sta rendendo possibile l’assorbimento della crisi entro variazioni dei tassi di disoccupazione sotto la media europea, ma, soprattutto, inferiori ai tassi che si osservano nei Paesi della c.d. flexicurity e dei sussidi di disoccupazione: se il mercato del lavoro italiano sta registrando un aumento della disoccupazione del 2%, più del doppio è l’incremento danese (+4,1%) e ancora più alto quello spagnolo (+7,4%) o irlandese (+7,8%).

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Leggendo questo dato, seppur limitatamente, solo nell’ottica dello strumento di ammortizzamento sociale, il risultano non stupisce. Il sussidio unico di disoccupazione interviene, anche quando generosamente, solo in caso di perdita definitiva del posto di lavoro. Al crescere del sussidio, cresce indirettamente l’incentivo per il datore di lavoro al licenziamento, ancor più quando il sussidio grava interamente sulle casse dello Stato; l’azienda risparmia sul costo fisso del lavoro e il licenziato è coperto per qualche mese dal contributo statale.

 

L’assegno mensile, oltre a garantire un reddito al lavoratore, spesso placa anche le tensioni pubbliche causate dalla diminuzione dei posti di lavoro, non surriscaldando, perciò, il dibattito politico e sociale. Il risultato è che non c’è ragione perché le imprese si ingegnino per trattenere i lavoratori in esubero e questo determina tassi di disoccupazione che, in periodo di crisi, rischiano di essere galoppanti. Nei Paesi che sposano questo modello di protezione al reddito, il lavoratore sa che in un tempo relativamente breve riuscirà a trovare un’altra occupazione. Questo, però, durante una fase economica “normale”; gli effetti della crisi sul tasso di disoccupazione medio attendono di essere osservati e non si prospettano positivi.

 

Il sistema italiano è, invece, essenzialmente diverso. Il legislatore italiano ha sempre preferito proteggere il posto di lavoro, senza incentivare le aziende a licenziare, bensì a sospendere i rapporti di lavoro, a congelare le posizioni. Questo determina, pur con le sue distorsioni, quel fenomeno di lungo riassetto, di graduale assorbimento delle perdite, che è tipico delle imprese italiane durante la crisi. Imprese, che, a ogni modo, non sono incentivate a terminare i rapporti e che, spesso nel mondo produttivo medio/piccolo italiano, fanno di tutto per non arrivare ad approvare una riduzione dell’organico. Infine la flexicurity “alla danese” esige un contesto strutturale complesso nel quale l’Italia è largamente carente: efficienti servizi al lavoro, adeguata formazione, monitoraggio del mercato del lavoro.

 

Se quindi questa prima critica è smentita dai dati comparati, un seconda è sconfessata dal dato giuridico. È ricorrente il giudizio di iniquità del nostro sistema di ammortizzatori sociali, che proteggerebbe solo il dipendente a tempo indeterminato, abbandonando al loro destino i contratti atipici, pur molto diffusi.

 

Negli anni 2009 e 2010 le misure anticrisi hanno moltiplicato i fruitori di strumenti di sostegno al reddito, che ora sono rivolti anche agli apprendisti, ai somministrati, ai lavoratori temporanei e ai co.co.pro. Questo è noto, in realtà, anche ai critici, che, difatti, solitamente non sostengono l’allargamento dei beneficiari, quanto quello dei requisiti per l’accesso ai sussidi.

 

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Anche in questo caso è utile osservare il dato comparato. Guardando all’Europa e calcolando l’indice di severità dei requisiti relativo alle caratteristiche che bisogna avere per godere dei benefici (l’indice si calcola dividendo il periodo di contribuzione richiesto per il periodo di riferimento entro il quale deve essere avvenuta la contribuzione), si scopre che l’Italia è un Paese “generoso” (indice 0,50, come la Germania), certamente meno rigido di Olanda (0,72) e Irlanda (0,75), sebbene più esigente di Francia (0,14) e Danimarca (0,33).

 

Certamente è necessario completare il disegno riformatore degli ammortizzatori avviato de facto negli ultimi due anni. Inevitabilmente si dovrà rafforzare l’indennità di disoccupazione, da costruirsi su base assicurativa e con copertura universale e decrescente, edificando quei servizi connessi che attualmente latitano come la banca dati percettori, il monitoraggio dei fabbisogni del territorio e la capacità di formazione continua e riqualificazione del lavoratore. Di sicuro non è da smantellarsi il sistema delle sospensioni, né le previsioni di criteri di accesso congrui rispetto ai periodi pregressi di lavoro.

 

Ma le vere novità in questo campo ruoteranno attorno al definitivo sdoganamento della bilateralità anche nella gestione del sostegno al reddito e nella inclusione dell’area del lavoro autonomo tra i beneficiari dei nuovi diritti. Questa è l’ottica dello Statuto dei Lavori ideato dal prof. Marco Biagi e la direzione verso la quale non è difficile prevedere che l’attuale Ministro del Lavoro e delle politiche sociali procederà spedito dopo le elezioni regionali.