La “grana Grecia” sta tenendo con il fiato sospeso l’intera Europa. Ieri le agenzie di rating hanno infatti tagliato il rating sul debito di Atene (S&P parla di “junk”, spazzatura) e secondo alcune indiscrezioni, il ministro delle Finanze greco George Papaconstantinou avrebbe ammesso che il deficit del 2009 (già rivisto al rialzo dall’Eurostat al 13,6% rispetto al precedente 12,9%) potrebbe sforare il 14% del Pil. Ad Atene serviranno dunque presto dei fondi, anche perché lo stesso Papaconstantinou ha detto, sempre ieri, che la Grecia non è più in grado di finanziarsi attraverso i mercati: è l’Unione europea a dover dare un forte segnale, rendendo disponibili i fondi promessi oltre due settimane fa. Ma, come ha ricordato su queste pagine Mauro Bottarelli ieri, tutto resta fermo per colpa della Germania. Ce lo conferma anche l’economista Mario Deaglio in questa intervista: la vera ragione per cui i prestiti non vengono erogati è di tipo politico. Le elezioni regionali tedesche che si terranno il 9 maggio tengono in scacco tutta l’Europa.
Professore, che idea si è fatto di quanto sta accadendo in Europa?
Credo che la posizione della Germania, insopportabile e antipatica, con toni piuttosto arroganti, sia determinata dalle elezioni regionali che sono importantissime per il Governo. Angela Merkel non può quindi concedere un prestito alla Grecia prima di queste votazioni.
Dunque bisognerà attendere dopo il 9 maggio per vedere risolta la situazione?
Penso di sì, solo che prima di allora il Governo tedesco ha la necessità di far vedere agli elettori che ha il pugno di ferro. Tutta questa situazione creerà venti giorni di incertezza e sconquasso sui mercati che non farà certo bene (basta vedere quel che è successo ieri alle borse europee).
Nonostante il “muso duro” della Germania, molti risparmiatori tedeschi hanno sottoscritto titoli di stato greci, quindi Berlino avrebbe tutto l’interesse a salvare Atene. D’altra parte però per la Grecia non sarebbe più conveniente uscire dall’euro?
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Quel che dice sulla Germania è assolutamente vero. Quanto alla Grecia, sarebbe difficile per lei uscire dall’euro. Come ha ricordato Tremonti, la scelta della moneta unica è irrevocabile, in quanto non è prevista l’opzione di uscita. Certo, tutto si può fare, ma nel momento in cui la Grecia dovesse prendere quella strada, diverrebbe una meta turistica attraente ed economica, ma pagherebbe di più tutte le materie prime che importa. Se poi Atene prendesse questa decisione in conflitto con la Comunità internazionale ne pagherebbe le conseguenze.
Alla Grecia verranno in ogni caso chiesti tagli e sacrifici. I cittadini sono già scesi in piazza diverse volte per protestare contro queste misure. Non crede che risolvendo la questione si creerà un problema sociale?
Altro che! Io non so fino a che punto, in tempi di pace, sia così pacifico dire ai propri cittadini che avranno un taglio del 20% dei propri stipendi per i prossimi 10-15 anni. Penso quindi che un leader dell’opposizione avrebbe gioco facile nel dire “al diavolo l’Unione europea”. A quel punto la Grecia potrebbe anche decidere di non ripagare i debiti (questa è la forza dei debitori), un po’ come fatto in passato dall’Argentina.
C’è comunque chi punta il dito contro gli speculatori, rei di contribuire a creare una situazione ancor più difficile.
La mia impressione è che ci siano alcuni grossi “giocatori” finanziari, soprattutto americani, che hanno sottoscritto il debito greco, poi hanno sottoscritto un’assicurazione sul debito greco (i famosi cds), poi hanno venduto i titoli di stato determinando una caduta del loro prezzo e una contemporanea salita del valore dei cds che hanno in mano. È certamente un comportamento intollerabile, il problema è che non c’è nessuno in Europa in grado di alzare la voce.
I titoli di stato della Grecia a dieci anni sono arrivati a un rendimento superiore al 9%, mentre i fondi messi sul piatto dall’Ue hanno un tasso di interesse del 5%. Qualcuno vede in questa differenza l’ostacolo maggiore allo sblocco dei fondi europei.
Di fatto non ho dubbi che la vera ragione per cui i prestiti non vengono erogati sia di tipo politico. C’è bisogno subito di quei fondi, perché la Grecia ha un grosso problema di liquidità. E non è bello spingere questo paese sull’orlo della disperazione. Ufficialmente la Bce non può prestare soldi a uno stato sovrano europeo. L’unica strada percorribile, secondo me, è trovare un accordo tra diverse banche europee che prestino questi fondi con la garanzia dei governi. La realtà però è che di soluzioni si parla da oltre quindici giorni, ma nessuno ha fatto ancora nulla di concreto.
Non si potrebbe sperare in un intervento esclusivo del Fondo monetario internazionale, vista la titubanza dell’Unione europea?
Non sarebbe sufficiente, perché siamo di fronte a una brutta situazione. Il Fondo monetario internazionale ha sempre coperto solo una frazione del debito dei paesi in difficoltà. Il fatto che la Grecia aderisca all’euro complica inoltre la situazione, perché è più logico che intervengano gli altri paesi dell’Unione monetaria.
In una recente intervista, lei hai dichiarato che restano solo cinque anni prima della dissoluzione dell’euro. È ancora di questa idea?
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In quella intervista partivo da un articolo di fondo pubblicato su The Economist la scorsa settimana in cui si davano tre anni di tempo all’euro per salvarsi. Secondo me ne restano invece cinque. Il fatto è che l’Europa deve risolvere delle questioni di governo economico. La moneta appesa così com’è a un niente non ha più senso.
Cosa occorrerebbe fare?
Se vogliamo risolvere la situazione della Grecia dobbiamo probabilmente cambiare la governance europea, trasferendo a Bruxelles una parte delle decisioni di politica economica dei paesi in difficoltà. Quindi occorre togliere sovranità ai paesi membri sulle politiche economiche, ma nessuno è disposto a farlo. Ci dovrebbe essere quanto meno un coordinamento economico più stretto di quello esistente. Francia e Germania, che da sole creano oltre la metà del Pil europeo, possono farlo. È possibile che anche l’Italia, magari per il rotto della cuffia, possa entrare in questo “club”. Del resto abbiamo dimostrato di essere affidabili: sono dieci anni che rinunciamo a crescere pur di non far aumentare il debito.
In questi giorni si sente parlare della necessità di una riforma del Trattato di Maastricht, in particolare per quel che concerne i controlli sul rapporto debito/Pil dei paesi membri. È d’accordo con questa ipotesi?
Penso che queste siano soluzioni parziali: non è il Trattato di Maastricht che va rivisto. Occorre darsi una Costituzione europea che sia tale e non “finta” come quella attuale, che non è mai stata approvata da nessuno. L’unico modo per far funzionare l’Europa come un paese è trasferire alcune importanti funzioni a un centro, che oggi non esiste. In base alla pseudo-Costituzione attualmente in vigore sono stati creati uno pseudo-ministro degli Esteri che è totalmente inesistente e uno pseudo-primo ministro anch’egli inesistente. Sembra di trovarsi di fronte a una farsa. L’unica struttura esistente è la Banca centrale europea, che opera nel vuoto senza un governo che possa stabilire una politica economica.
Occorrerebbe dare alla Bce la possibilità di effettuare una politica monetaria di stimolo?
Serve ben di più. Occorre fare politiche industriali reali che vadano bene per tutta l’Europa. Anche se non sono della parte politica del ministro dell’Economia, devo dire che mi sembra assolutamente sensata l’idea che l’Europa finanzi con propri bond i grossi lavori infrastrutturali.
Serve dell’altro oltre a questi eurobond?
Basterebbe prendere spunto dagli Usa, creando un’unica imposta valida per tutti i paesi europei, lasciando la possibilità ai singoli stati di introdurre delle addizionali. In America gli stati (come la Georgia) che vanno adagio ottengono dei bonus fiscali per andare più in fretta. Ci deve essere quindi un surplus europeo, ottenuto con le imposte normali, che viene distribuito tra i vari paesi. Vanno poi creati coordinamenti europei per quanto riguarda i livelli dei servizi pubblici e i vincoli della burocrazia. Questo naturalmente non si fa dalla sera al mattino: è un percorso che può impiegare 10-15 anni, ma se non cominciamo subito rischiamo la dissoluzione dell’Unione. Ci troveremo con un nucleo di paesi centrali con una coesione più stretta e gli altri appesi a una moneta che non controllano, restando così più indifesi di fronte agli assalti speculativi.
Crede quindi alla possibilità della nascita di un euro a due velocità o addirittura a una sorta di doppia moneta europea, una per i paesi più forti e un’altra per quelli più deboli?
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Penso che se si continua a non far nulla, questo è lo scenario più probabile. Non so con quali modalità, ma si potrebbe arrivare a una doppia moneta. L’Italia potrebbe far parte dei paesi più forti, ma questo non toglie che nel nostro paese occorrono riforme per avvicinarsi alle performance economiche dei nostri partner più avanzati.
All’Italia non converrebbe sganciarsi dall’euro in modo da poter svalutare la propria moneta come fatto in passato e alzare la quota delle proprie esportazioni?
Lei pensa davvero che se noi uscissimo dall’euro e creassimo una moneta più debole i francesi e i tedeschi, che sono i nostri migliori clienti, ma anche i nostri competitori, ci lasceranno esportare nei loro paesi “gratis”? Io non lo credo. Basti pensare che negli ultimi anni della lira, prima che l’Italia decidesse di aderire all’euro, c’era stato un momento in cui la Germania voleva introdurre un dazio compensativo sulle merci italiane.
Se sono Germania e Francia a dettar legge in Europa, crede che questo avrà influenza nella corsa tra Mario Draghi e Alex Weber per la presidenza della Bce?
Non glielo so dire. So che Weber ha fatto recentemente una dichiarazione che mi è sembrata irresponsabile, quando a Washington ha detto che i rischi di contagio per l’euro derivanti dalla Grecia sono aumentati. Non aveva titolo per fare queste dichiarazioni.
Trova che in qualche modo questa situazione di empasse stia indebolendo l’Europa sul piano internazionale?
Sì, in diversi aspetti. Ormai noi siamo alla periferia dei flussi finanziari internazionali, che oggi hanno come riferimento Cina, Stati Uniti e in misura crescente i paesi emergenti come India e Brasile. Basti pensare che la Borsa del Brasile è grossa tre volte quella italiana. Chi ci crediamo di essere?
Forse pensiamo di aver ancora un certo peso dato che siamo tra gli otto paesi più industrializzati al mondo.
Noi ci sentiamo tali, ma se andiamo a vedere i progressi degli ultimi dieci anni noi siamo vicini allo zero, mentre tutti gli altri sono cresciuti. Solo per cortesia ci lasciano ancora il posto al tavolo dei grandi.
(Lorenzo Torrisi)