Sembra di sognare. Ma su Le Figaro del 5 aprile scorso spiccava un titolo che suona così: “Le Fmi encourage le riguer à l’italienne”. Un buon biglietto da visita per i grandi appuntamenti di primavera: la pubblicazione del rapporto del Fondo Monetario, prevista per il 21 aprile; la riunione del G20, incentrata sul nodo della rivalutazione dello yuan; il meeting dei ministri finanziari del G20, da cui dovrebbero emergere le regole del dopo crisi. Un carosello di appuntamenti internazionali a cui l’Italia, una volta tanto, non partecipa nel ruolo di imputato o, comunque, di debitore inadempiente. Eppure, a giudicare dai numeri, la situazione lascia assai a desiderare.



1) Le prospettive della crescita, innanzitutto, giustificano qualsiasi allarme. Nel 2009 l’economia italiana ha registrato un crollo del 5,2%, il risultato peggiore del dopoguerra. La caduta ha prodotto i suoi effetti sul tasso di disoccupazione, salito al 7,8% ufficiale (ma non si tiene in debito conto il numero dei giovani e meno giovani che hanno rinunciato a cercare un’occupazione). Ancor più grave è stato l’impatto sui conti economici delle imprese: il settore dell’economia non protetto, che opera in regime concorrenziale, ha registrato una caduta del fatturato a due cifre, spesso attorno al 35-40%. Una frana del genere non può non avere pesanti effetti anche sullo stato patrimoniale e gettare così un’ombra pesante sulla possibile ripresa.



2) Non a caso lo stesso Fondo Monetario corregge al ribasso le stime sulla ripresa: non più dello 0,8%, contro una previsione governativa dell’1%. Pesa la fragilità dei bilanci delle imprese, la difficoltà a rimettere in circolo il credito bancario e la debolezza dei consumi interni, oltre alla lentezza della ripresa dei clienti europei del made in Italy. Queste difficoltà congiunturali aggravano una situazione a rischio: dal ’95 ad oggi, in termini di produttività, l’Italia ha perduto posizioni preziose nei confronti della Germania, quasi l’80%, con gravi danni per la componente più dinamica del Paese, a partire dalle imprese del Nord Est.



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3) A che si deve, data questa cornice, la valutazione positiva della politica di bilancio italiana? Giulio Tremonti ha saputo contenere la frana del debito, nonostante la gravità della congiuntura economica. Basti dire che le entrate fiscali sono scese solo del 2%, assai meno della cauta del Pil. Certo, per la prima volta dall’inizio degli anni ’90, l’Italia chiude l’anno con un saldo primario negativo (ma solo dello 0,6%), mentre il rapporto tra debito e Pil è schizzato al 115,22%. Ma il deterioramento dei conti dei Paesi dell’area Ocse è stato assai più marcato.

Non solo. Nel corso della recessione, i governi hanno esteso la rete di protezione agli istituti bancari privati e, di riflesso, sia ai depositi che ai debiti delle famiglie (vedi i mutui e il credito al consumo) e dei depositanti. Perciò, le agenzie di rating hanno deciso di tener conto nella valutazione delle pagelle dei singoli Paesi anche dei debiti/crediti dei privati e non solo delle amministrazioni pubbliche.

Di qui una promozione (relativa) dell’Italia rispetto ad altre nazioni, la Gran Bretagna ad esempio, dove ad un modesto debito pubblico fa da contraltare una pesante esposizione dei privati. Per queste ragioni il Cds (il credit default swap che misura il rischio fallimento di un Paese) della Penisola si mantiene su livelli inferiori alla media dei Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e la stessa Spagna che pure ha un debito pubblico largamente inferiore), nonostante la mole esorbitante dei Cds italiani in circolazione.

 

4) Il passaggio, insomma, risulta stretto: le risorse a disposizione sono modeste ma, d’altro canto, è necessario riavviare un ciclo di sviluppo dopo 102 trimestri consecutivi (il calcolo è della Banca d’Italia) in cui l’economia del Bel Paese è cresciuta a tassi inferiori dei principali concorrenti. In parte, l’Italia potrà contare sullo stellone se Cina, Usa e Giappone confermeranno le stime di crescita attuali, largamente superiori a quelle dell’Unione europea che, per giunta, potrà trarre vantaggio dal deprezzamento dell’euro. In parte sarà necessario aiutarsi da soli: la riforma strutturale del fisco, in questa luce, è l’occasione irrinunciabile per cercare di restituire velocità ad un sistema che viaggia con i freni tirati, fenomeno che si vede poco nei momenti di crisi, quando tutti rallentano, ma che minaccia di apparire in tutta la sua drammaticità al momento della ripartenza.