Sergio Marchionne è sotto osservazione. È vero che, per lui come per Eduardo, gli esami non finiscono mai. Questa volta, però, siamo alla prova di maturità. Non solo in Italia (in vista del 21 aprile giorno in cui dovrà presentare agli eredi Agnelli il piano strategico), ma (forse soprattutto) negli Stati Uniti.

Chrysler è l’unico produttore americano che continua a perdere terreno: a marzo tutti hanno aumentato le vendite, Chrysler le ha ridotte. Non solo: sui giornali Marchionne non è più Super Sergio, ma un ceo (chief executive officer) assente. Non l’unico, tuttavia il più lontano, diviso com’è tra Detroit, Torino, Ginevra. In un momento in cui emergono i costi della crisi, anche per lui si leva la richiesta di prendere la residenza là dove lavora, visto che ha incassato i quattrini dei contribuenti americani.



Può sembrare un tocco di populismo facilone, ma chi conosce gli States sa che non è così. Si chiama piuttosto accountability, cioè la responsabilità nei confronti di chi vota o di chi paga. È un dovere, del resto, al quale l’intero vertice Fiat, a cominciare dagli azionisti, è chiamato anche in Italia. E non ha nulla a che vedere con “il tiro al piccione” denunciato da Montezemolo.



“Teniamoci gli Agnelli”, scrive Gianni Gambarotta (vedi ilsussidiario.net di martedì 30 marzo), sempre meglio che nuovi interventi diretti dello Stato. Ha ragione, anche alla luce di quel che è successo negli Usa. Il governo è servito a tamponare l’emorragia, ha salvato le imprese, ma non le ha rilanciate. Gli stessi incentivi, ecologici o no, sono cerotti che leniscono, non curano le ferite.

Ha reagito meglio alla crisi il produttore che ha fatto a meno dei contribuenti, perché si è affidato alle risorse interne e a quelle della proprietà: stiamo parlando del gruppo Ford, nel quale la famiglia ha una quota minoritaria, ma equivalente al 40% dei diritti di voto, quindi superiore al peso specifico degli Agnelli.



Anche i Ford hanno compiuto i loro errori. Dopo l’uscita di Henry II nel 1980, sono stati assenti. Nel 1999 è tornato a gestire l’azienda un erede diretto, William Clay, bisnipote del fondatore, con risultati non lusinghieri. La famiglia ha assecondato clamorosi abbagli dei manager: per esempio sottovalutare a lungo Cina e India, dove il gruppo americano è entrato in ritardo e oggi ha una quota di mercato troppo piccola (poco più del 2%). Gli Agnelli, dal canto loro, hanno lasciato che Cesare Romiti, il manager più potente e apprezzato dopo Vittorio Valletta, considerasse il mercato cinese buono solo per i furgoncini. Tanto che la Fiat è ancora assente.

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Teniamoci gli eredi Agnelli, dunque, purché facciano il loro dovere di azionisti, perché l’azienda moderna non può essere guidata da una mera regola dinastica. Il dovere è sostenere e finanziare il grande sogno, cioè il progetto di un vero gruppo multinazionale. Qui vale il dubbio sollevato da molti, tra i quali un ex top manager della stessa Fiat, Riccardo Ruggeri, l’uomo che ha creato New Holland: si può mettere insieme Fiat e Chrysler, lanciare nuovi prodotti, riconvertire le officine, i rivenditori, i clienti, verso modelli più avanzati, che consumano e inquinano meno, si può insomma cambiare strategia con i soldi degli altri, siano essi i contribuenti americani o italiani?

 

È chiaro che la risposta è no. Se il piano strategico di Marchionne li convince, allora gli azionisti debbono mettere mano al portafoglio. Non possono, nel pieno di una crisi strutturale come questa, intascare dividendi senza investire. Costo zero per la proprietà e prezzo pieno per la collettività, è una filosofia socialmente iniqua ed economicamente insensata.

 

E qui torniamo all’esame di maturità. Gli eredi Agnelli, a fronte del loro impegno (e non di un progressivo sganciamento), hanno maggior forza e autorità per chieder conto all’amministratore delegato. Finora gli hanno concesso una delega integrale: fai tu, perché noi abbiamo altro a cui pensare. Marchionne ha fatto molto, anche le nozze con i fichi secchi. Ma non può fare tutto. Soprattutto non è in grado di compiere le scelte di fondo, cioè nuovi modelli (che comportano investimenti costosi e di medio periodo), senza conoscere le risorse che ha a disposizione e quale dote l’azionista gli affida.

 

Portare in America la 500, l’Alfa e la Lancia, significa lavorare con quel che c’è già. Ma quel che c’è (e i dati delle vendite lo dimostrano) non basta certo ad assicurare un futuro alle due aziende legate da una cambiale di matrimonio. Ora che la scadenza si avvicina, è il momento di capire chi la paga, come e quanto.