Per avere un’idea di come ci si senta sui mercati in queste settimane, è necessario un tuffo nel passato. Non occorre avventurarsi troppo lontano: tutto è accaduto in una notte. Mi riferisco alla notte, o magari alla serata, in cui chiunque lavori ancora nella finanza londinese è divenuto familiare con il termine “redundant”.



Ridondante è l’eufemismo barocco con cui gli uffici del personale definiscono chi è stato licenziato. Negli ultimi tempi è successo un po’ ovunque. I primi round cominciarono a fine 2007 e da allora la scure delle risorse umane si è abbattuta sulle sale di mercato con frequenza trimestrale fino a buona parte del 2009.



Difficile rientrare in gioco una volta finiti nella rete. Per questo chi è ancora in giro tra i viottoli della city ha quell’entusiasmo, per certi versi inappropriato, del sopravvissuto. Chi è ancora qui, insomma, della redundancy ha conosciuto solo la procedura iniziale, quell’annuncio dato al centro della sala con il capo in piedi su una scrivania, mentre sul piano cala un silenzio irreale.

Poi la corsa al computer per aggiornare le mail, con il fiato sospeso fino a quando il vicino si mette le mani nei capelli e tu capisci che l’hai scampata ancora una volta. Di cosa succede al redundant, da quando è invitato a uscire dalla sala, noi sopravvissuti ne sappiamo poco. A un certo punto, però, tutto diventa terribilmente reale. Succede quella sera in cui un superstite si reca al pub per un boccone in compagnia e l’amico a bruciapelo annuncia: “Mi hanno fatto redundant”. È inutile girarci troppo intorno: sarà una serata di addio.



Nelle ultime settimane la crisi ha raggiunto le dimensioni planetarie che molti temevano essere dietro l’angolo. Storie come quelle dei miei amici passano in sordina, come in fondo è inevitabile. Si tratta di ragazzi arrivati dalle Americhe, dall’emisfero australe, dai quattro angoli dell’Europa e dal levante mediterraneo, tutti approdati a Londra con una sana dose di ambizione e una gran voglia di bruciare le tappe.

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Mentre la stragrande maggioranza di noi fa le valigie, sotto i riflettori finiscono i debiti pubblici, i crolli in borsa e i salvataggi di colossi finanziari considerati a prova di iceberg fino alla sera prima. A margine di questi numeri, fiorisce la letteratura di esperti, emergono improbabili teorie del complotto e in qualche caso il banchiere fa capolino nella cronaca: brevi comparsate nel ruolo di furbone pentito o, più spesso, vestendo i panni del capro espiatorio.

 

Personalmente non credo che il giro sulle montagne russe sia già finito, ma ho l’impressione che tra un’euforia per un salvataggio e il panico di un nuovo cedimento si rischi, prima ancora dei soldi, di perdere se stessi. È questa la confusione che regna, magari sottotraccia, nella city. Quello stato confusionale in cui non si sa più dove andare né, peggio ancora, che cosa si è venuti a fare. E, nell’incertezza, una strada rischia di valere quanto l’altra.

 

Questa è la prima sfida che la crisi impone: per cosa, per dove si può ancora prendere un azzardo? Proprio oggi, alla macchinetta del caffè, un senior trader raccontava di aver ricevuto un’offerta da una prestigiosa università per tenere un corso post-laurea. Mentre il mio bicchierino si riempiva, ho udito il suo collega esclamare un “perché no?”.

 

Altri partono per rischiose avventure imprenditoriali che spaziano dall’importazione nel Regno Unito di prodotti regionali allo sviluppo di complicati software. Qualcuno si spinge fino a oriente (soprattutto, Hong Kong o Singapore), dove – sono sicuri – tutto riprenderà come e più di prima. La stragrande maggioranza resta in trincea e, quando azzarda un’incursione sui mercati, lo fa con saggia stanchezza, come maturando la consapevolezza che dopo tanti annunci l’incantesimo della finanza anni ’90 sembra essersi spezzato per davvero. È inutile cercare una direzione nella bussola impazzita dei mercati: quella che appariva come una sfera di cristallo si è rivelata una bolla speculativa, puntualmente esplosa.

 

Cos’altro resta per analizzare le prossime mosse? In queste settimane gli addetti ai controlli sono alacremente all’opera, pronti a puntellare le operazioni finanziarie con strumenti sempre più efficienti e sofisticati. I regolatori si dicono pronti a nuove regole, i legislatori a nuove leggi e quasi si è invogliati a pensare che in fondo sì, può darsi che tutto tornerà davvero come prima.

 

La tentazione di liquidare questi ultimi mesi stropicciando gli occhi, quasi ci trovassimo in un incubo irreale dal quale presto o tardi ci sveglieremo, è forte. E la soluzione sembra essere alla portata di mano (c’è il complotto da sventare, il banchiere da processare, la ricetta economica a prova di debito…), salvo poi sfuggirci un attimo prima di afferrarla.

 

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Tuttavia, tra le molte misure che saranno adottate in tempi brevi, c’è un fenomeno su cui vale la pena soffermarsi. La finanza, specie quella londinese, sta cambiando pelle. Sepolta da quintali di procedure, la banca d’investimento difficilmente sarà ancora in grado di attirare talenti da tutto il mondo allo stesso ritmo degli ultimi vent’anni.

 

Ora è troppo presto per dichiarare quale sarà la nuova frontiera: se il commercio di prodotti locali, l’informatica o l’emigrazione in massa verso oriente. Di sicuro, per imboccare una via d’uscita, sarà necessario investire in quelle intuizioni capaci, magari contro ogni attesa, di riportare il talento di ciascuno al servizio di tutti.

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