Remunerare un importo in euro, preso a prestito per un anno sul mercato interbancario europeo, costa al momento 1,257%. Tanto valeva ieri il celebre Euribor a 12 mesi, tasso di riferimento pubblicato giornalmente dalla Bce.
Molto si è detto sull’efficacia di questo indice, sulla sua reale capacità di mettere a fuoco una figura complessa quale l’euro-sistema, specie su orizzonti temporali di breve periodo. Vero è che i numeri salgono sul banco degli imputati solo quando, a posteriori, rivelano il profilo ambiguo di Cassandre colpevolmente ignorate.
Discussioni accademiche a parte, all’Euribor va riconosciuto un merito indiscutibile: saper riassumere, in un semplice numero percentuale, il costo di un sistema. E dal costo-base di un sistema derivano a cascata i costi sostenuti da chi in quel sistema vive: l’Euribor è il barometro del mutuo sulla casa e del prestito all’azienda. L’Euribor incide sul carovita, suggerisce a banche e assicurazioni i rendimenti da garantire a chi risparmia in euro.
Oggi fare banca nel sistema europeo, ovvero intermediare in euro per un periodo pari a un anno, costa ad un’istituzione finanziaria l’1% circa. Un anno e mezzo fa, il 2 ottobre 2008, lo stesso indice marcava 5,526%. Cosa è successo in questi mesi? La bussola è impazzita? O forse, questo indice dal nome semiserio, così simile a una spada conficcata nella roccia, ha registrato sottotraccia un fenomeno interessante?
Vivere su tassi impennati non è sempre sinonimo di buona salute. Nel 2008 la febbre era alta e quel 5% sta lì a ricordarlo. Tuttavia, un costo del denaro sul punto percentuale costringe a una riflessione sulle condizioni attuali del mercato finanziario europeo. E per farlo, occorre esaminare la terapia che dal picco febbricitante ci ha condotto a questo flebile 1%.
Con l’esplodere della crisi, le principali banche centrali, compresa quella europea, hanno reagito con tempistica apprezzabile, immettendo nel sistema ingenti disponibilità di cassa. Il meccanismo si è rivelato semplice e molto efficace: con cadenza settimanale le banche centrali concedevano – e tutt’ora concedono – liquidità a tassi minimi in cambio di titoli ritenuti affidabili.
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Il prestito ha una durata di sette giorni, così che la scadenza coincida con la possibilità di entrare in una nuova operazione. Dettaglio importante, su cui torneremo più avanti: a partire dal 15 ottobre 2008, la Bce ha modificato la struttura del prestito, semplificando notevolmente le modalità di accesso alla liquidità.
Da allora chiunque può accedere all’operazione, basta soddisfare due semplici condizioni: avere titoli eleggibili all’operazione e pagare il tasso richiesto. Quest’ultimo, il tasso richiesto, è la vera innovazione di questo strumento. La procedura semplificata ha introdotto un tasso fisso che dal 3,75% è sceso progressivamente fino ad assestarsi sull’1% attuale.
Numeri e date sembrano mostrare una curiosa simmetria. La data, innanzitutto: ottobre 2008. Agli inizi del mese l’Euribor a 12 mesi raggiunge quota 5,5%, il massimo dai tempi della bolla targata new economy. Una settimana dopo, l’8 ottobre 2008, la Bce annuncia l’introduzione della procedura semplificata. La prima procedura viene eseguita, come detto, il 15 ottobre 2008. Un anno e mezzo dopo, due tassi per loro natura diversi, il tasso fisso Bce con scadenza settimanale e l’Euribor a 12 mesi, due indici quasi impossibili da confrontare, tendono entrambi all’1%.
Sui mercati monetari regna una calma apatica, una forma di inerzia per cui si può azzardare una spiegazione da manuale di chirurgia. L’intervento sul sistema finanziario europeo ha avuto l’effetto di un coma farmacologico, indotto da continue e abbondanti iniezioni di liquidità. E mentre il sistema nervoso dell’economia europea si stabilizzava su un tasso appena percettibile, gli attivi finanziari delle banche sono stati svalutati per un corrispettivo di 1765 miliardi di dollari [], di cui 574 miliardi in Europa e 1150 miliardi in America (dove sono state adottate misure simili).
Ecco quindi cosa è accaduto. I bilanci di colossi finanziari sono stati smontati, destrutturati, in alcuni casi demoliti con furia iconoclasta. Deleverage è la parola d’ordine oltremanica. “Delevereggiare” è l’inglesismo che più si ascolta tra le scrivanie dei banchieri italiani basati nella City. Tradotto letteralmente, significa ridurre la leva finanziari [], ripulire i bilanci dall’intossicazione di debito.
Una montagna di debito, accumulata dagli anni Novanta fino all’estate del 2007, quando il mercato dei subprime ha cominciato a scricchiolare. Senza i tassi d’interesse all’1%, la parola stessa, “deleverage” non esisterebbe neppure. In compenso, oggi si parlerebbe molto di economia di sussistenza e risparmi sotto il materasso.
[1] Fonte: Bloomberg.
[2] Rapporto tra capitale proprio e debiti.
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Che cosa succederà adesso? I mercati sono sotto sedativi da più di un anno, ormai. A fronte di svalutazioni colossali, le istituzioni finanziarie sono riuscite a raccogliere capitale per 1.515 miliardi di dollari []. Una cifra quasi impensabile, raccolta senza seminare il panico. Ma tutti questi soldi presto o tardi andranno remunerati. Ignorare questo aspetto, l’elemento remunerativo, significa esporsi al rischio che, una volta puntellato il mercato del debito, a collassare nello smarrimento generale sia il mercato azionario.
C’è una considerazione ulteriore da affrontare a questo punto. Una considerazione che prende spunto dalla nostra saggezza nazionalpopolare. Come recita il proverbio, è inutile fare i conti senza l’oste. Fuor di metafora, senza l’intervento pubblico di molti Stati – intervento decisivo in più di un Paese – la terapia dei sedativi non sarebbe mai stata possibile. E la terapia, a giudicare dall’andamento dei debiti pubblici, non sembra essere priva di costi.
È possibile che presto le banche centrali tenteranno un risveglio graduale dei mercati. In Europa la Bce interverrà sui prestiti in cambio di titoli e con ogni probabilità abbandonerà la procedura semplificata per ritornare a un regime di tassi variabili, determinati dall’incontro tra domanda (tanta) e offerta di liquidità. Forse il risveglio dei mercati sarà privo di ricadute, seguirà un percorso di stabilità e si assesterà su livelli di crescita sostenibile, quella terra promessa della finanza che in tanti ormai invocano a gran voce. Oppure, la corsa dei tassi ritornerà febbricitante, una caccia affannosa all’accumulo di nuovo debito, come e più di prima.
In mezzo a questi due scenari, uno idilliaco e l’altro catastrofico, corre una strada impervia, l’immobilismo dello status quo. Ma una volta giunti a metà del guado, restare immobili per non correre alcun rischio è il più grande tra tutti i rischi.
[3] Fonte: Bloomberg.