L’avevamo scritto oltre tre mesi fa: le casse di risparmio spagnole erano la bomba ad orologeria pronta a scoppiare, costrette a cercare fusioni per implementare le riserve e riuscire così a non soccombere sotto il peso di bad assets ormai ingestibili. Detto fatto, ieri la Banca centrale di Spagna ha dovuto salvare CajaSur dopo che l’istituto non è riuscito a portare a termine il merger con un’altra banca e quindi si apprestava a dover dichiarare default a fronte di perdite per 596 milioni di euro contro revenue per 426 milioni lo scorso anno: una scelta obbligata che però, come effetto collaterale immediato, ha fatto crollare l’euro e i titoli bancari sui timori di nuove ondate di crisi legate non solo al debito sovrano degli Stati ma anche alla reale situazione patrimoniale degli istituti di credito di alcuni paesi europei: la casse di risparmio spagnole hanno tempo fino al 30 giugno per chiedere aiuto al governo ma i fondi statali per i salvataggi sono minimi e con enormi difficoltà per rastrellarli.
Il rischio di fallimenti a catena, con sedici (16!) fusioni necessarie, è davvero alto. Insomma, l’avversione al rischio dei mercati sta toccando vertici poche volte conosciuti e quando l’hedging diviene regola, occorre prepararsi al peggio: la moneta comune europea è scivolata a 1,2383 sul dollaro dopo il mini-rally di venerdì scorso garantito dalle rassicurazioni delle autorità monetarie dell’Ue e dalle parole di Christine Lagarde, ministro delle Finanze francesi. La cosa che preoccupa è il fatto che la caduta dell’euro è accelerata dopo la rottura del punto di stop loss posto da molti investitori a 1,2480: sceso sotto quel livello, è stato tonfo. Il nuovo punto di supporto, oggi, è stato posto a 1.2135, livello di medietà tra i massimi e i minimi delle moneta unica: se dovesse essere sfondata la resistenza a 1,19 potrebbero davvero essere guai per la tenuta dell’unione monetaria ma anche per l’Europa stessa. E non manca molto.
Il fatto che il principale sindacato spagnolo stia preparandosi a uno sciopero generale contro le misure di austerità disposte dal governo, poi, non fa che aggiungere tensione a tensione attorno alla moneta unica: i trader dicono chiaramente che lo squeeze di short sull’euro non è sostenibile per molto ancora, alla prossima cattiva notizia in arrivo dall’Europa partiranno le vendite di massa. La liquidità si sta asciugando e gli investitori puntano dritti sul dollaro come valuta rifugio, fattore che ha garantito l’apprezzamento del biglietto verde negli scorsi giorni: la situazione di quattro mesi fa è completamente ribaltata. E con una velocità che deve fare paura. Anche perché se sul Financial Times di questo fine settimana uno storico come Simon Schama parla apertamente di rischio di deriva autoritaristica in Europa, una sorta di riedizione degli anni Trenta con la crisi economica che diviene detonatore della furia sociale e quindi delle risposte estreme, c’è da cominciare a porsi delle domande: potranno Grecia, Spagna e Portogallo onorare i propri debiti con Ue e Fmi a fronte del rischio di rivolte sociali interne? L’austerity diverrà ancora una volta la benzina dell’estremismo?
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Il rischio, purtroppo, è decisamente alto. Quando Jeronimo Da Sousa, leader dei comunisti portoghesi, parla apertamente della propria nazione come di un "protettorato di Bruxelles" e invoca una nuova guerra civile come quella che nel 1383 vide i portoghesi scacciare gli oppressori stranieri, c’è poco da stare tranquilli: le parole sono pietre. E ci vuole poco, quando la tensione sale, a trasformare le parole in bottiglie incendiarie: la Grecia ce lo ha tragicamente insegnato in tempi molto recenti. Quando un giornalista attento come Ambrose Evans-Pritchard dedica la sua column al fatto che «l’estrema sinistra europea, da Rifondazione comunista a Izquierda Unida, sta fornendo l’unica risposta coerente alla follia dell’unione monetaria europea e del suo sviluppo, parlando chiaramente della necessità di creare un’unione fiscale per poter uscire dall’impasse in maniera strutturale» significa che i tempi necessitano una riflessione supplementare: Ambrose, di cui mi onoro di essere amico, è un convinto sostenitore del libero mercato, un liberale ante-litteram: se arriva a questi paradossi, significa che siamo sull’orlo del baratro.
L’Unione sta saltando, lo dicono i dati: il costo del lavoro in Germania, tra il 2000 e il 2008, è cresciuto del 7 per cento contro il 34 per cento dell’Irlanda, il 30 della Spagna, del Portogallo e dell’Italia, il 28 per cento della Grecia e Olanda e il 20 per cento in Francia. Di più, mentre nello stesso periodo la Germania ha accumulato un surplus di 1,26 miliardi di euro, la Spagna creava un deficit di 598 miliardi di euro e il Portogallo di 273 miliardi: due mondi completamente diversi uniti, artificialmente, solo da una moneta unica. Non è un caso che Peter Gauweiler, politico bavarese, abbia avanzato un’istanza di blocco del salvataggio deciso dall’Ue, dicendo che questo mina alle fondamenta la politica monetaria europea fissata dal Trattato di Maastricht: al di là del gioco parallelo deciso da Merkel e Bundesbank, intenzionati a godere sia politicamente che economicamente di questa speculazione forzata, è difficile dargli torto.
L’euro sta diventando la turbina di un nuovo odio "tribale" all’interno dell’euro, una sorta di veleno che sta penetrando in profondità e rendendo ingestibile il divario Nord-Sud: un capolavoro di monsieur Delors, per dirla con Ambrose Evans-Pritchard. Quanto durerà la colla che tiene insieme l’Europa non è dato a sapersi, di certo c’è solo il fatto che le crepe divengono sempre più visibili giorno dopo giorno. Attenzione, poi, al crash borsistico in arrivo su Wall Street: se, come sembra, arriverà questa settimana, Washington dovrà reagire con ogni mezzo per salvarsi. E l’euro, ad occhio e croce, appare la vittima sacrificale.