La principale critica che si può rivolgere alla manovra correttiva da 24 miliardi di euro, che in queste ore è sulla scrivania del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è che ben poche persone in Italia sanno che cosa esattamente essa contiene. Per esprimere giudizi, quindi, si è costretti a ragionare sulla base delle indiscrezioni di stampa che non sono state smentite ricordandoci il motivo per il quale si è resa necessaria una così importante correzione dei conti.
Dopo che i bilanci pubblici farlocchi della Grecia hanno messo a rischio l’esistenza stessa dell’euro, i Paesi europei hanno preso (con colpevole ritardi e tentennamenti) due decisioni: promettere 750 miliardi per salvare Atene dall’impossibilità di ripagare i propri debiti (anche attraverso l’acquisto dei suoi titoli ad un tasso del 5%) e il varo di una vasta operazione di contenimento dei conti pubblici di ogni Paese per evitare che il sospetto di insolvenza dilagasse.
Ricordo, per inciso, che alla sola voce sulla possibilità che la Cina non volesse più acquistare titoli europei, di cui ha già in cassaforte 515 miliardi di euro, i mercati hanno reagito con un crollo. I Paesi europei si sono quindi trovati nella necessità di racimolare in poche settimane chi 7 (Gran Bretagna), chi 10 (Germania) chi 15 (Spagna) chi 30 (Grecia) miliardi di euro tra il 2010 e il 2011 per dare un segnale ai propri creditori di essere in grado di onorare le proprie obbligazioni. Questo era lo scopo, e ogni mezzo atto a raggiungerlo va giudicato in relazione a esso e alle contingenze nelle quali viene assunto, e non in relazione all’optimum che sarebbe giusto raggiungere.
Per questo, la manovra del governo italiano è la migliore delle manovre possibili, probabilmente la migliore degli ultimi 15 anni perché per la prima volta non solo non si mettono le mani nelle tasche degli italiani per finanziare una spesa pubblica abnorme e immorale, ma si incide sui tagli di spesa: diarie ai politici, accorpamento degli enti inutili, riduzione degli stipendi privati e pubblici (stock option), blocco dei rinnovi contrattuali per i dipendenti statali, accompagnando il tutto con una riduzione dei trasferimenti alle regioni e l’azzeramento dell’Irap per i nuovi insediamenti produttivi nel Mezzogiorno.
Insomma: per una volta non si tassa, ma si taglia. In relazione alla situazione concreta e ai rischi che abbiamo corso (dovremmo ricordarci del drammatico weekend dell’8-9 maggio) questa manovra è quella che occorreva fare. Detto questo occorre porsi due domande. Primo: è sufficiente per rassicurare a lungo termine sulla solidità finanziaria dell’Italia? La risposta è no, perché risparmiare senza crescere è il modo migliore di finire in recessione.
Secondo: questa manovra riforma strutturalmente il profilo economico italiano? Anche in questo caso la risposta è no, perché non incide abbastanza pesantemente sulla spesa pubblica, pari a 810 miliardi di euro l’anno. Il fatto di non contenere riforme strutturali (il presidente del Consiglio Berlusconi si è affrettato a dire che si tratta di norme “temporanee” credendo così di tranquillizzarci) molto probabilmente, prepara il terreno ad altri interventi sui conti, come ha osservato il professor Ugo Arrigo.
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Ma, come detto, lo scopo di questa manovra è quello di trovare, in poche settimane, sotto la pressione asfissiante dei mercati, 24 miliardi per evitare l’aumento dei tassi e un possibile, esiziale, downrating. Altri (Cgil) avrebbero voluto raggiungere lo stesso scopo con un aumento delle tasse per mantenere inalterata la spesa pubblica che soffoca l’iniziativa privata. Altri (centrosinistra) lo avrebbero voluto raggiungere con riforme strutturali dimenticando essere stati i primi a impedire negli anni passati quella più significativa e urgente (pensioni).
Altri ancora (Confindustria) pur dando un giudizio positivo, hanno lamentato la scarsa attenzione agli investimenti pubblici in infrastrutture, rinunciando, da una parte, ad abbracciare la bandiera delle liberalizzazioni e, dall’altra, dimenticando di essersi accontentati, tra il 2007 e il 2009, di trasferimenti di danaro di Stato sotto forma di incentivi al consumo invece di insistere meno distrattamente perché venissero spesi fondi già esistenti (quelli per la banda larga, ad esempio).
Se un giudizio negativo va espresso, quindi, non è su questa manovra, ma su ciò che questo governo (non) ha fatto nei due anni di legislatura appena trascorsi e sulle scarse prospettive riformatrici dei prossimi tre anni. In questo senso, il peso maggiore della responsabilità ricade sulla Lega, la quale non solo ha impedito il taglio delle province, ma pare disposta a sacrificare ogni altra riforma sull’altare di quella federalista.
Se Bossi non si rende conto che il federalismo non modificherà il rapporto squilibrato tra insiders e outsiders del mercato del lavoro, che non riduce la spesa pensionistica, che non eviterà la chiusura delle fabbriche, che non farà diminuire la spesa per interessi sul debito pubblico, entro tre anni i problemi che non abbiamo risolto oggi torneranno più grandi di prima.