“Non mi stupisce che sia gli osservatori del Fondo Monetario che dell’Unione Europea abbiano deciso di fermarsi ad Atene per i prossimi tre mesi: il mondo ha imparato a non fidarsi di noi greci fin dai tempi del cavallo di Troia…”.

Complimenti a Yannis Stoumaras, economista del partito socialista greco, uno dei pochi all’ombra del Partenone a non aver perduto la voglia di scherzare in un momento drammatico per le sorti della democrazia ellenica. Sono in molti, infatti, a dubitare che la cura da cavallo che il governo Papandreou ha annunciato domenica mattina possa reggere all’urto della piazza.



E questo, in parte, spiega la prudenza con cui i mercati finanziari hanno accolto ieri la corazza di ferro da 110 miliardi che Bruxelles e Washington hanno approntato a difesa delle malandate finanze della Grecia: Borse in lieve, pallido rialzo da Parigi a Francoforte, euro addirittura in calo rispetto a venerdì scorso.



Eppure la Bce, nella mattinata, aveva provveduto a disinnescare una delle possibili minacce alla stabilità del sistema, garantendo la solvibilità dei bond ellenici presso la tesoreria della Bce, nonostante il rating di Atene sia scivolato a Bb+, sotto la soglia di junk.

Una deroga provvidenziale per evitare il crack delle banche di Atene, ovvero un altro passo verso la catastrofe, ormai scongiurata, seppur a caro prezzo: per tre anni le finanze greche vivranno sotto una tenda a ossigeno che le proteggerà da eventuali tempeste sui mercati.

Nel frattempo, molte cose, non necessariamente negative, potrebbero modificare il quadro: l’esperienza del salvataggio delle banche Usa dopo la crisi dei subprime c’insegna che i costi delle crisi finanziarie, alla resa dei conti, possono essere assai inferiori alle prime proiezioni. Non è nemmeno escluso, se proseguirà il trend dei bassi tassi di mercato, che le istituzioni oggi esposte con Atene scopriranno fra tre anni di aver fatto un ottimo affare.



Ma, probabilmente, la ragione della cautela dei mercati non va cercata nelle piazze di Atene, dove la gente sfila in corteo contro la prospettiva di andare in pensione a 60 anni invece che a 53. La realtà è che, nonostante l’happy end del lungo negoziato attorno al malato Grecia, la prima crisi dell’euro ha messo a nudo la drammatica fragilità della costruzione europea, ormai in stand by da una decina di anni.

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Si è scoperto, insomma, che il re è nudo: l’esperienza dell’unità monetaria in assenza di un programma comune che tenda verso l’unificazione politica è ormai esaurita. Oppure, per dirla con i critici Usa, è durata assai più del previsto, ma solo per merito di fattori esogeni: la cronica sottovalutazione del dollaro, sull’onda dei deficit gemelli; l’interesse dei Paesi emergenti, Cina in testa, a frenare la leva del cambio; la lunga stagione dei tassi bassi e, più ancora, del basso premio al rischio che ha caratterizzato gli anni che hanno receduto la crisi subprime.

 

Queste condizioni esterne hanno illuso l’Europa che il patto di stabilità siglato a Maastricht fosse condizione sufficiente per sostenere l’edificio della moneta unica. Ad avvalorare questa tesi “contabile” è servita pure la compiacenza delle istituzioni finanziarie americane, che avevano annusato l’occasione per nuovi, buoni affari sulle spalle dei più deboli.

 

E così, al pari dei mutui subprime concessi con finta generosità alle famiglie americane più deboli, si è moltiplicata una fitta rete di “affari” finanziari al servizio dei Paesi più fragili o delle istituzioni locali (e di regioni e comuni, in Italia ma non solo) più affamate di cash. Il tutto, beninteso, con la benedizione delle società di rating, prodighe di voti altrettanto generosi.

 

Ora, ahimè, l’onda lunga della crisi presenta il conto: in una situazione in cui si moltiplicano le richieste di denaro da parte degli Stati, costretti a intervenire per tamponare le falle delle istituzioni finanziarie e dell’economia reale, è ovvio che a cedere siano i più deboli, a partire dalla Grecia. Ed è altrettanto ovvio che l’arma pesante, cioè l’euro, si riveli più d’impiccio che di utilità, nei momenti dell’emergenza.

 

Paesi come la Polonia hanno potuto sfruttare l’arma della svalutazione competitiva. Altri, come la Lituania, che non potevano contare sulla solidarietà dalla Bce, hanno reagito con prontezza facendo leva sulla volontà popolare, pronta a ogni sacrificio pur di non perdere il treno per l’Europa. Al contrario, i Paesi che più hanno beneficiato della Unione Monetaria e degli aiuti della Ue, dalla Grecia alla Spagna, si sono trovati spiazzati dal nuovo panorama internazionale. Per dirla con Petros Markaris, giallista di fama internazionale, la Grecia si è ubriacata in poco tempo con i soldi dell’Europa, senza elaborare una cultura della ricchezza.

 

E così, negli ultimi dieci anni, l’Europa ha clamorosamente mancato l’obiettivo politico principale: la riduzione del gap tra Europa ricca e paesi del Mediterraneo. I contributi a pioggia che dovevano favorire le aree più deboli solo di rado hanno creato efficienza. Spesso, al contrario, hanno alimentato spesa improduttiva a vantaggio dei produttori di Bmw o Mercedes piuttosto che delle griffes dell’alta moda. Il tutto sotto l’ombrello di un patto di stabilità fasullo, che le alchimie di Goldman Sachs o gli inghippi delle varie contabilità nazionali hanno appreso ad aggirare con irrisoria facilità.

 

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Oggi, complice la crisi greca, l’Europa si sveglia più povera e indifesa di quanto non pensasse solo pochi mesi fa. All’emergenza finanziaria vanno aggiunti gli squilibri delle economie, ovvero una gigantesca questione meridionale che minaccia la stabilità di Eurolandia, più la necessità di affrontare nodi essenziali per lo sviluppo, a partire dalla questione ambientale.

 

È in questa situazione, tutt’altro che allegra, che merita accogliere con soddisfazione il richiamo della Germania a rivedere il patto di stabilità. Certo, nel breve si profila una nuova stretta per i più poveri (almeno quelli che hanno truccato o abbellito i conti), magari anche sul piano della fiscalità. Ma per salvare la baracca è bene che tutti, di fronte all’emergenza, si sentano un po’ greci. Senza ricorrere ai cavalli di Troia.

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