Alla fine, il tempo è sempre galantuomo. Molti anni fa, Henry Kissinger lanciò un monito-previsione riguardo il futuro dell’Ue: «Chi devo chiamare, se voglio chiamare l’Europa? Una sola persona conta: il cancelliere tedesco». Et voilà, la crisi greca – orchestrata in toto dalla Germania, almeno politicamente – ci consegna questo: un’Europa tedesca, nata non dalla volontà di conquista e dalla guerra ma attraverso l’unione monetaria.



L’euro, nei fatti, ci ha talmente reso tutti uguali da spezzare l’Ue in mille pezzi: dove un tempo c’erano i muri, ora ci sono spreads sui titoli di Stato, dove ieri c’erano confini e posti di blocco, ora ci sono i debiti pubblici. Godiamoci beatamente Schengen credendo che non ci siano più dogane, né limiti: nei fatti è così, ma semplicemente perché ci apprestiamo a vivere in un’enorme Germania con qualche succursale periferica.



I mercati, alla fine, non ascoltavano più nessuno, né volevano sentire nulla da nessuno che non fosse Berlino: giunto il sì al piano di salvataggio da 110 miliardi di euro, ecco che il mondo sembra aver ritrovato stabilità. La Grecia, come è giusto che sia visti i comportamenti passati, dovrà imporre ai propri cittadini una cura da lacrime e sangue per uscire dalla crisi e onorare il prestito.

«Ridaremo ogni euro», ha dichiarato il ministro delle Finanze ellenico. Gli converrà, altrimenti la Grecia diventerà nella migliore delle ipotesi un protettorato e nella peggiore – ma non per questo più peregrina – un supermercato per take-over ostili da mezzo mondo. I cinesi, fiutata l’aria che tirava già mesi fa, si sono portati avanti e hanno comprato l’ente portuale del Pireo.



Per Wim Kosters, professore di economia europea all’Istituto del Reno-Westfalia, «la crisi greca ha impietosamente mostrato a tutto il mondo come l’Europa sia totalmente incapace di gestire l’unione monetaria: alla fine, è stata costretta a chiamare il Fondo Monetario Internazionale. Abbiamo creato regole che nessuno ha seguito, ma la Commissione non è riuscita a porre fine al gioco, hanno dovuto farlo i mercati» Queste dichiarazioni le ha fatte, non a caso, al Forum di Euromoney a Berlino.

Il problema, in questo caso, è tutto politico. Guardiamoci in faccia e parliamo di numeri. La Grecia non può fare ciò che promette e rischia di innescare un domino di instabilità ancora peggiore in tempi brevi. Il perché è presto detto: il governo Papandreou dovrebbe tagliare del 16% gli stipendi dei dipendenti pubblici, alzare l’Iva al 23%, tagliare il deficit primario del 12% rispetto al Pil entro tre anni.

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Nonostante questo, conti alla mano, il debito pubblico greco entro il 2014 toccherà il 140% sul Pil: o Atene mette in conto la guerra civile e taglia ancora di più in tutti i settori oppure occorre che il Fmi rimetta mano e testa al caso, visto che i mercati per ora fingeranno di credere alla favoletta del “caso chiuso”, ma subito dopo cominceranno a scommettere visto che pensare di poter pagare il 20% di interesse sui Bot biennali è qualcosa di lunare.

 

Portogallo e Spagna, poi, sono ancora nel mirino e probabilmente avranno bisogno di terapie simili: ovvero, prestiti o tagli draconiani alla spesa pubblica. Probabilmente, di entrambi. Anche perché, in ambienti finanziari, molti analisti cominciano ad avvertire gli investitori con portafogli consistenti di preparasi alla fuga in base al vecchio detto borsistico americano “sell in May, then go away”. Ovvero, nuvole nere si addensano sui mercati in tempi relativamente brevi.

 

Il settore più a rischio, non a caso, è quello bancario: gli istituti nel mirino sono tre, esattamente Dexia, Credit Agricole e Fortis, quest’ultimo con un’esposizione verso la Grecia per un valore equivalente al 50% del valore annuale netto dei propri assets. Credit Agricole, invece, rappresenta un caso a parte perché non è esposta particolarmente sui bonds, ma ha la sua più grande sussidiaria proprio in Grecia: se il piano Ue-Fmi non eviterà il default, saranno guai.

 

Ecco spiegata la concitazione del francese Jean-Claude Trichet, capo della Bce ma anche referente degli interessi parigini. E per Bob McDowell di TowerGroup la cosa da fare è «uscire dal ciclico e concentrarsi su segmenti di mercati come alimentari e trasporti». Tanto più che, per la prima volta, è accaduto qualcosa di decisamente insolito: il titolo di Goldman Sachs ha subito un downgrade da parte di due agenzie e posto nella lista delle azioni “sell”, da vendere.

 

L’azione della banca d’affari è scesa per la prima volta sotto la soglie critica dei 150 dollari, per l’esattezza 148,69 e il Wall Street Journal ha fatto partire una vera crociata a colpi di indiscrezioni in base alle quali Goldman Sachs sarebbe alle soglie di un’incriminazione penale e non civile da parte del procuratore di Manhattan: vendere Goldman, quindi.

 

Qualcosa di folle ma anche di inquietante: la banca d’affari, infatti, è il più grande collocatore di debito pubblico Usa sui mercati: significa che qualcosa sta muovendosi sottobanco per colpire gli “intoccabili”, manovre ad altissimo livello. Il titolo di Goldman ha rotto il punto di supporto fissato a 147 dollari, per poi risalire, ma il preludio a qualcosa di più delicato è nell’aria: occorrerà vigilare e vedere i movimenti nelle prossime settimane. Un’impensabile “caduta degli dei” potrebbe concretizzarsi ma questo non significa che porterà qualcosa di migliore. Anzi.

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