Settimana interessante dal punto di vista macro, con parecchi indicatori in arrivo dagli Stati Uniti. Il principale riguarda il dato sull’occupazione per quanto riguarda il mese di maggio: sono attesi tra i 150mila e i 250mila nuovi posti di lavoro non nel settore agricolo contro un consensus di circa 300mila atteso dagli analisti.



Sempre nei prossimi giorni, poi, sono attesi il dato ISM del settore manifatturiero, quello riguardante le vendite di automobili e infine quello riguardante le vendite nelle grandi catene commerciali: insomma, un misto di crescita e fiducia dei consumatori, oltre che di potere d’acquisto, che potrebbe creare mutamenti di notevole entità sui mercati. Ma se l’America, di cui torneremo a parlare più tardi, sta per affrontare sfide importanti per il suo futuro, è sempre l’Europa a restare nel mirino degli investitori: la crisi spagnola del settore bancario, infatti, sta per toccare il suo vertice.



Nella disattenzione colpevole dei regolatori, infatti, sta per saltare la fusione tra Caja Madrid, secondo gruppo bancario del paese e cinque casse di risparmio regionali (Caixa Laietana, Caja Avila, Caja Segovia, Caja Insular de Canarias e Caja La Rioja), operazione resa necessaria dall’approssimarsi del 30 giugno, data entro il gruppo madrileno dovrà rimborsare 99 miliardi di euro del fondo di salvataggio governativo: non solo, il governo Zapatero ha imposto alle banche di risparmio regionali un piano di fusione obbligato che porterà il numero totale di istituti da 45 a 15.

Questo a fronte di una situazione macro tutt’altro che rosea: 20% di tasso di disoccupazione e deficit di budget al 9,3%, livello simile alla Grecia. Il downgrading subito venerdì dalla Spagna, inoltre, ha affossato ulteriormente l’euro, questa settimana alle prese anche con una recrudescenza proprio della crisi greca, visto che per il Centre For Economics and Business Research (CEBR) di Londra, un consulente proprio del governo di Atene nel piano di austerity, il paese non potrà sfuggire alla trappola del debito a meno che non svaluti la propria moneta per sfruttare l’export.



Il problema è che l’unica via per farlo sarebbe l’abbandono dell’euro da parte della Grecia: parlando sabato ad Atene, Doug McWilliams, amministratore delegato del CEBR è stato molto chiaro, «l’unica opzione percorribile per la Grecia è uscire dall’euro e andare in default». In alternativa, Atene dovrebbe estendere la durata dei suoi debiti per cinque anni nel tentativo di evitare il default. Insomma, c’è forte odore di accanimento terapeutico.

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Il fatto che però la Bank of England abbia già preparato un piano di svalutazione della sterlina del 20%, dice chiaramente quali siano le prospettive di fronte ai paesi con forte indebitamento: o la Germania accetterà una politica monetaria a pioggia da parte della Bce oppure la Spagna sarà costretta ad abbandonare l’unione monetaria, visto che la spirale di interessi composti portata con sé dalla politica di tagli salariali può trascinare il paese nel combinato congiunto debito-deflazione.

 

Non siamo di fronte a quelli che gli economisti chiamano shock esogeni, siamo di fronte a una crisi strutturale di dimensioni ancora da comprendere: finché la logica sarà quella di salvare la Grecia perché troppo piccola per fallire o salvare la Spagna perché troppo di media dimensione per fallire, ci troveremo di fronte a un insieme di scelte sbagliate che Allan Meltzer, professore di economia alla Carnegie Mellon University, condensava nella formula, «il capitalismo senza fallimenti è come la religione senza peccato».

 

Le banche americane, ora, hanno paura: hanno scoperto le reali esposizioni verso le controparti europee e chiedono, in pura chiave di hedging, tassi di interesse più alti sui prestiti interbancari. Un dato parla chiaro: la lista delle “banche problematiche” della Federal Deposit Insurance Corporation conta 775 istituzioni contro le 252 del 2008. Questo senza contare le 72 banche fatte fallire dai regolatori quest’anno e quelle andate a gambe all’aria dall’inizio del 2008, 237 per l’esattezza.

 

Non è un caso, poi, che la crisi del debito europea abbia fatto propendere la Fed per un ritardo nel rialzo del tasso di interesse. Insomma, segnali preoccupanti a cui si uniscono il pressoché collasso della coalizione di governo in Giappone, realtà che ha fortemente indebolito lo yen e l’approssimarsi dello scoppio della bolla immobiliare in Cina, segnalato anche dal dato dei bond denominati in dollari venduti dalle compagnie di real estate, i peggiori performers nel mercato asiatico del debito non-financial corporate denominato nel biglietto verde.

 

Il gruppo più colpito è Kaisa Group Holdings, che ha visto lo spread per i 3,9 miliardi di bonds da sette dollari emessi salire del 2,05% rispetto alle concorrenti del mercato asiatico, escluso il Giappone: sia Goldman Sachs che Credit Suisse hanno tagliato il rating delle compagnie di real estate cinesi dopo l’incredibile balzo del 12,8% dei prezzi delle case nel paese del Dragone in aprile. Troppi i focolai di incertezza, troppe le situazioni di difficile risoluzione per potere pensare che i mercati non siano preda di volatilità e speculazione: il tempo, però, stringe.