Eccola qui, la “sovranità limitata”, eccolo qui il “vincolo esterno”, tante volte invocato negli anni Novanta e ora indiscutibilmente tra noi, massiccio, incalzante. È un vincolo esterno che rappresenta tante cose insieme.
Sono le regole di Maastricht, che sembravano arido burocratese senza efficacia e ora con tutta evidenza sono la “pietra di paragone” alla quale guardano i mercati per stabilire se un Paese merita fiducia oppure no; ma sono anche i gravami della globalizzazione, che impongono perfino al sindacato dei “duri e puri” della Fiom-Cgil di subire senza veri argomenti di replica l’aut-aut della Fiat di Sergio Marchionne: in un mondo che compete sui costi del lavoro, la produttività di Pomigliano deve cambiare, oppure io cambio Paese.
Eccolo qua il vincolo esterno che, in fondo, svuota la politica, imponendo sopra di essa la cappa dittatoriale dei mercati. Il governo nazionale subisce il diktat della Banca centrale europea e della Commissione Ue, che peraltro a loro volta stanno sotto lo schiaffo della speculazione internazionale che oggi per la Grecia, domani per la Spagna e dopodomani per l’Ungheria, ha messo l’euro nel mirino e non chiede di meglio che di sparare.
E allora via ai tagli dei deficit pubblici, attraverso l’abbattimento dei costi delle pubbliche amministrazioni, ben altro che le punture di fioretto finora inferte da Brunetta; via all’equiparazione in tre anni dell’età pensionabile delle donne a quella degli uomini, cancellando con un colpo di spugna decenni di politica della famiglia; stop agli interventi per le aree a sviluppo ritardato, sia che sperperino sia che sappiano usare bene i fondi: non ce n’è più per nessuno.
Ed eccolo qui, l’altro vincolo “esterno ma interno”: quello delle Regioni povere verso le Regioni ricche, il cosidetto “patto di stabilità interno”. Oppure quello nuovo, il vincolo dettato dal criterio federalista dei costi standard, quelli delle “virtuose” Lombardia, Umbria, Toscana, Emilia o Veneto, alle “viziose” Campania, Lazio, Calabria, Sicilia… in teoria un criterio sacrosanto, dove però o si trova il modo di compensare, almeno transitoriamente, i tagli feroci imposti dall’altro oppure si rischia di buttar via con l’acqua sporca del malaffare e degli sprechi anche il bambino dell’assistenza minima necessaria in un Paese civile.
E infine, il “vincolo esterno” di una globalizzazione abbracciata indiscriminatamente e incondizionamente, che preme sugli Stati come sul signor Rossi, che si presenta col volto sorridente dei cinesi che importano manufatti tutt’altro che “made in dignity” eppure troppo convenienti per essere, ahimè, respinti alla frontiera o tartassati dai dazi. Così decise nel 2001 la World Trade Organization, agli ordini degli Stati Uniti, scambiando l’assoluta libertà di vendita delle merci cinesi nel mondo con il collocamento di montagne di debito pubblico americano.
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E ancora, il vincolo esterno di un’immigrazione afro-asiatica in Europa e in Nordamerica, quasi sempre meritevole e laboriosa, che però per la sua storia fatalmente entra su mercati dove rompe gli equilibri e scompagina assetti sociali tutt’altro che immeritevoli, spesso finendo per essere accolta da una montante xenofobia.
Diciamo la verità, non è per niente facile vedere un bandolo in tutto queste scatole cinesi di sovranità delegata o limitata. Come se nessuno più comandasse, nessuno più contasse, tutti costretti da forze soverchianti messe in moto da noi stessi, le forze della speculazione e della grande finanza internazionale.
Se c’è una frontiera su cui combattere per il riscatto di un nuovo umanesimo del lavoro e dell’economia è questa. Ma non sarà affatto facile conquistarla, quanto meno non lo sembra oggi, che non si sa neppure da dove incominciare.