La decisione di mostrare alla fine di ogni trasmissione Rai i compensi di chi l’ha realizzata avrà un effetto immediato: di molte trasmissioni delle reti pubbliche la parte più interessante saranno i titoli di coda. Ma che questa decisione venga definita un omaggio alla trasparenza è pura mistificazione. Ciò che a me personalmente interessa non è quanto guadagna Fabio Fazio o Bruno Vespa. A me interessa sapere se quei conduttori (che sono spesso anche autori dei programmi) valgono ciò che costano e, ancora più importante, a me interessa che l’azienda che li paga chiuda ogni anno l’esercizio in utile senza, possibilmente, ”adeguare” il canone di abbonamento.



I compensi dei suoi dipendenti o dei suoi collaboratori sono fatti che riguardano il rapporto tra l’azienda e chi percepisce il compenso, non chi paga il canone. Perché chi paga il canone non possiede gli strumenti (e i dati) per capire se un conduttore pagato 10 volte di più della media dei suoi colleghi vale ciò che costa. Se, cioè, il programma che realizza per la Rai faccia guadagnare la Rai o meno. Questo lo sa la Rai (e sono dati piuttosto sensibili che difficilmente renderà pubblici, giustamente), non noi. Ed è sempre la Rai che deve decidere chi pagare molto e chi pagare poco. Ed è sempre la Rai che deve stabilire, sulla base di quanto concordato dal contratto di servizio, quali trasmissioni meritano di essere mandate in onda ugualmente anche se producono perdite, in quanto svolgono un servizio pubblico.



Per fare tutto questo occorre una Rai governata da una dirigenza forte. Forte perché autonoma. Autonoma perché impermeabile ad influenze partitiche esterne e che abbia come unico scopo quello di rispettare il contratto di servizio e produrre utili. Ovviamente stiamo parlando di fantascienza.

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Nella realtà la decisione di mostrare al pubblico i compensi dei conduttori è un’ammissione di debolezza. Non potendo la Rai decidere autonomamente quanto pagare chi e chi mandare in onda quando, si affida al pubblico ludibrio per aizzare lo sdegno popolare contro i vip strapagati.



 

È, insomma, come se si dicesse: “Noi non siamo capaci di abbassare gli stipendi che, come vedete, sono stratosferici”. Nessuna azienda si comporta così. Nessuna azienda accetterebbe di esporre i propri dipendenti o i propri collaboratori all’ignominia pubblica per via dei compensi che percepiscono. Su nessuna scatoletta di tonno troveremo mai lo stipendio dell’amministratore delegato della società che lo produce.

 

La replica di alcuni componenti della commissione di vigilanza che ha approvato all’unanimità la norma, è che la Rai è tenuta a farlo perché si sostiene con il canone. Vero in parte. La Rai si sostiene con la pubblicità, il canone, che è una tassa, dovrebbe (dovrebbe) sostenere le spese delle trasmissioni che vengono prodotte e mandate in onda per ottemperare agli obblighi di servizio pubblico. Ma, per fare un esempio, le trasmissioni di Fabrizio Frizzi o Gabriella Carlucci, non sono un obbligo da servizio pubblico, sono spettacoli che vivono della pubblicità che riescono ad attrarre. Eppure sui loro compensi si scatenerà la rabbia popolare che distruggerà il capitale di simpatia sul quale anche la Rai conta per attrarre telespettatori. La commissione di vigilanza Rai, insomma, con la sua decisione ha deciso di distruggere il capitale del quale la Rai vive: la popolarità e simpatia dei suoi conduttori. Complimenti.