O così o si chiude, o si lavora di più a Pomigliano d’Arco, o andiamo in Serbia e in Polonia: il diktat di Sergio Marchionne ha isolato di nuovo la Fiom, ma per il momento è passato. Resta da vedere come lo prenderanno i lavoratori. Forse i cinquemila operai e impiegati si rendono conto di trovarsi in stato di necessità. Il trasferimento della Panda da Tychy, alle condizioni dell’azienda, è inevitabile per salvare il salvabile. Un po’ come i tagli alla spesa decisi da Giulio Tremonti. Basta guardarsi attorno.



La Indesit chiude due stabilimenti in Italia: ormai anche i Merloni si sono internazionalizzati e producono molto più all’estero. Ma la notizia ancor più clamorosa viene dalla Spagna dove Zapatero presenterà in settimana un decreto per riformare il mercato del lavoro, senza l’accordo dei sindacati: la riunione al ministero si è risolta con una rottura che non impedisce al governo socialista di andare avanti lo stesso. «Vogliamo ridurre il costo dei licenziamenti per le imprese senza far perdere i diritti ai lavoratori», questo l’obiettivo nelle parole del presidente del governo spagnolo che ricordano da vicino, qui in Italia, la battaglia sull’articolo 18.



Assorbiti da polemiche sull’avidità dei banchieri, l’iperfinanza e la speculazione delle borse, ci è sfuggito un piccolo particolare. Cioè che la crisi ha origine nell’economia reale. Lo ha detto Mario Draghi nell’ultima assemblea della Banca d’Italia: è una crisi di competitività, quanto meno in Europa. In America e nel resto del mondo è una crisi da squilibri nei rapporti fondamentali: risparmio e investimenti, produzione e consumi, aree del mondo e settori industriali (come l’auto e gli elettrodomestici) che da tempo hanno raggiunto la loro saturazione sui mercati sviluppati e possono avere ancora una dimensione di massa solo nei paesi in via di sviluppo.



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Qui e ora si lavora solo per sostituire prodotti vecchi con quelli nuovi, più sofisticati, e spesso più cari (non sempre perché nell’elettronica i prezzi hanno contribuito a una vera e propria deflazione settoriale). Naturalmente, l’offerta segue la domanda, la produzione segue i consumi. E i beni per i nuovi mercati debbono costare meno, quindi vanno confezionati o con salari inferiori o con una produttività maggiore o con un mix delle due componenti. Lavorare di più e guadagnare meno? Un paradosso per qualsiasi sindacato serio. Eppure, in questa fase storica non lo è, così come non è la necessità di ridurre le nostre protezioni sociali, le pensioni (lavorando più a lungo), l’intero contratto sul quale si regge il modello dell’economia sociale di mercato.

L’illusione che la crisi fosse solo americana si è rivelata una consolatoria bugia. Posto fisso, previdenza garantita, spesa pubblica ed elevata tassazione, cioè i pilastri del sistema europeo, vanno rivisti per favorire la transizione a un nuovo modo di organizzare produzione, consumi, servizi. Un cambio di modello in occidente che s’accompagna a un cambio di modello anche nei paesi in via di sviluppo: dal mercantilismo spinto verso un allargamento della domanda interna, servizi sociali, salari più alti (in Cina gli scioperi ormai stanno coinvolgendo le maggiori imprese internazionali).

Tutte queste possono sembrare astrattezze da sapientoni agli operai dell’ex Alfa sud che debbono tirare la cinghia e rimboccarsi le maniche per non perdere il posto. Eppure, la sfida di Marchionne dovrebbe essere accettata non solo dai sindacati, ma dalle forze politiche. La Fiat ha già imboccato la sua strada multinazionale. Se l’operazione fallisce, tutto fallisce. Se ha successo, che cosa resta in Italia e all’Italia? Possiamo difendere i posti di lavoro esistenti (scelta indispensabile sul piano sociale). Ma possiamo anche fare in modo che vengano creati nuovi posti di lavoro.

I sindacati per primi dovrebbero chiedere alla Fiat, in cambio della inevitabile flessibilità nell’uso dei dipendenti attuali, di aumentare gli occupati nei suoi centri di ricerca italiani, nel marketing, nella progettazione, nel management, insomma in tutte le funzioni più elevate del ciclo produttivo. Dovrebbero pretendere dagli azionisti e dal loro amministratore delegato di non trasferire la polpa a Detroit. Di non svendere ancora una volta la tecnologia come venne fatto per il motore a iniezione o per i freni. Un regalo ai concorrenti in cambio di una manciata di spiccioli. E’ sui punti alti, dunque, che andrebbe concentrato l’intervento sia delle organizzazioni dei lavoratori sia dei partiti che vogliono ancora pensare al futuro e non esaurirsi nel tappare i buchi del presente.