Londra ha paura. Un sondaggio condotto dalla Bank of England sui mercati ha infatti portato con sé un risultato da brividi: i timori per il collasso di uno dei paesi debitori, tra cui Grecia e Portogallo, hanno portato infatti a scommesse di massa da parte degli investitori su un crollo del 20% dell’indice Ftse 100, qualcosa che ricorda molto il “black Monday” dell’ottobre 1987.



Come se questo non bastasse, poi, la notizia è coincisa con un’altra sgradevole realtà , questa volta resa nota dalla Banca per i regolamenti internazionali: gli istituti di credito britannici sono pesantemente esposti verso quelli di Irlanda e Spagna, più di quanto si sapesse e si pensasse, paesi che si teme saranno le vittime terminali della prossima ondata di crisi finanziaria.



A livello di esposizione di debito sia sovrano che privato, la Gran Bretagna nei confronti dell’Irlanda può “vantare” qualcosa come 230 miliardi e 158 miliardi rispettivamente, mentre verso la Spagna la situazione è di 150 miliardi. Nel suo Quarterly Bullettin, quindi, la Bank of England ha lanciato l’allarme: gli investitori, di principio già avversi al rischio, hanno accolto malissimo il salvataggio della Grecia da parte di Fmi e Ue; si fugge dai mercati e si scommette sul loro crollo, scegliendo come investimento hedge l’oro o, cosa che ha sorpreso, i bond governativi britannici.



I dati parlano chiaro: nelle ultime due settimane, il numero di investitori che hanno scommesso sul crollo dell’indice principale della Borsa di Londra è salito da meno del 5% a oltre il 13%: ai tempi del crollo di Lehman, la percentuale era del 25%. Il timore degli analisti, ora, è che un deteriorarsi delle condizioni dei bond governativi possa proprio innescare un reazione simile a quella che portò al crollo del gigante di Wall Street. Come scrivevamo mesi e mesi fa, la seconda ondata di crisi ruota tutta attorno al debito. Nessuno è escluso, nessuno è al sicuro. Italia in testa.

Il debito pubblico del nostro paese, infatti, è a livelli record: ad aprile si è attestato a 1.812,790 miliardi di euro, il livello assoluto più alto mai raggiunto. Lo ha comunicato ufficialmente la Banca d’Italia. A marzo si era attestato a 1.797,7 miliardi, mentre nell’aprile 2009 il debito pubblico ammontava a 1.749,28 miliardi di euro. Dal supplemento al Bollettino Statitistico della Banca d’Italia emerge inoltre che le entrate sono in calo nei primi quattro mesi del 2010: le entrate tributarie nel primo quadrimestre del 2010 si sono attestate infatti a quota 104,794 miliardi di euro, in calo dell’1,86% rispetto ai 106,787 miliardi registrati nel primo quadrimestre 2009. Nel solo mese di aprile le entrate, calcolate da via nazionale con il metodo della cassa, sono state pari a 25,122 miliardi (25,771 miliardi ad aprile 2009).

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Insomma, ci vorrà ben altro che la manovra da 24 miliardi varata: lo sa Berlusconi, lo sa Tremonti, conviene che lo sappiano tutti, dal primo all’ultimo cittadino su cui grava un debito spaventoso. Anche perché la situazione generale del debito sovrano europeo, rischia di portare con sé a breve una nuova crisi di finanziamento per le banche che saranno costrette a nuove svalutazioni: quindi, depressione degli utili, ulteriore flessione del prestito e rallentamento della ripresa.

 

Le securities bancarie stanno pagando i timori degli investitori rispetto ai bond sovrani di paesi come Grecia, Spagna e Portogallo: quanti ne hanno davvero in pancia gli istituti? E quanto ci metteranno quei titoli a trasformarsi in carta straccia come le cedole dei subprime? Già oggi il credito interbancario è al minimo, c’è sfiducia tra banca e banca e gli istituti stanno depositando a livello record nell’overnight presso la Bce a tassi ridicoli ma con garanzia assoluta: i numeri spaventano.

 

Proprio come quelli del costo per assicurarsi da un potenziale default bancario, saliti a livelli record la scorsa settimana. L’indice Markit iTraxx Financial Index degli swaps relativi alle principali 25 banche europee è salito a 208 punti base l’8 giugno, molto vicino al massimo di tutti i tempi di 210 punti base toccato nel marzo del 2009. Per trovare finanziamenti sui mercati le banche devono quindi usare la loro loan-to-deposit ratio e asciugare all’osso i bilanci: servirà una cura da cavallo, difficilmente smaltibile visto lo stato di salute ancora debilitato di molti istituti.

 

L’avversione al rischio, di fatto, sta stimolando le vendite di covered bonds, securities che sono garantite dall’emissario e coperte da mutui e altri prestiti, riducendo il rischio per l’investitore e il pagamento degli interessi per chi emette. In una situazione simile appare chiaro che le modiche proposte dal comitato di Basilea dovranno attendere, se non vorremo vedere una moria di istituti in stile statunitense.

 

Ma brutte notizie arrivano anche dagli Usa, dove il Congressional Budget Office ha reso noto che il costo per rimettere in sesto definitivamente Fannie Mae e Freddie Mac, i giganti dei mutui ormai detenuto all’80% dai contribuenti dopo il mega-salvataggio, potrebbe nella migliore delle ipotesi toccare i 160 miliardi mentre nel worst case scenario, non così remoto per molti analisti, il trilione di dollari.

 

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Non sono quindi bastati i 145 miliardi di dollari già ottenuti dallo Stato, per evitare un capitombolo letale per gli enti che garantiscono il 53% dei 10,7 trilioni di dollari di mutui immobiliari in essere negli Usa serviranno molti altri soldi: già ora, tamponare la situazione è costato più dei salvataggi di Aig, General Motors e Citigroup insieme. Il problema serio è dato dalla composizione dei 5,5 trilioni di dollari di mutui detenuti da Fannie e Freddie: circa 1,98 trilioni di questi sono stati accesi in stati come California, Florida, Nevada e Arizona che conoscono il tasso più alto del paese come incapacità di ripagare quanto contratto, mentre 1,13 trilioni sono stati contratti nel 2006 e 2007, anni del picco di valore del real estate negli Usa.

 

Insomma, ciò che sembrava un problema del passato ormai risolto sta rientrando dalla finestra: e lo sta facendo in un momento di estrema volatilità e instabilità, con il debito alle stelle e il mercato che declina la sua avversione al rischio nella previsione di alcuni analisti di un Dow Jones sotto quota 10mila punti in tempi brevi, un vero e proprio shock che giustifica quindi quanto avvenuto il 6 maggio scorso, ovvero la simulazione di crack borsistico organizzata da Nyse e Sec per valutare il punto di rottura e la capacità di reazione della Borsa Usa a un evento traumatico.

 

«Siamo appena entrati nel secondo atto della crisi», ha sentenziato domenica George Soros parlando della crisi innescata dalla situazione del debito sovrano in Europa. «I governi devono intervenire sui deficit di budget e questo, quasi certamente, ci riporterà in recessione», ha concluso lo speculatore tramutatosi in filantropo parlando a un convegno a Vienna. Patria, quest’ultima di una grande scuola di economisti liberisti e di quel gigante misconosciuto di Von Hayek: ascoltassimo un po’ di più le sue ragioni e non quelle fuori tempo massimo di Keynes, forse non saremmo ridotti così.