E Polonia sia. L’esito del referendum del 22 giugno a Pomigliano d’Arco è scontato, vinceranno i “sì” e non di misura, vinceranno con larghissima maggioranza, e la palla dell’accordo tornerà sul piede di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat che, circonfuso della gloria del risanamento, ha scomodato una metafora impegnativa per dire che lui “è nato dopo Cristo” e tutto quello che è avvenuto “prima di Cristo” non gli interessa.



Dunque, sempre che Marchionne non s’impunti contro il rifiuto della Fiom sia di firmare l’accordo che di prendere parte al referendum evocando i rischi di lotta sociale che potrebbero derivarne nell’impianto napoletano, a Pomigliano d’Arco verrà importato il modello organizzativo di Tychy, lo stabilimento polacco dove attualmente si produce la Panda, cioè – per la precisione – l’impianto dove seimila operai, solo mille in più di Pomigliano, hanno prodotto lo scorso anno 600 mila autovetture, cioè otto volte in più quelle di Pomigliano e appena centomila in meno di quante ne producono tutti gli addetti italiani di Fiat Auto (circa 33 mila) in sei stabilimenti. Come dire: non c’è gara, Tychy è dieci volte più produttiva di tutta la Fiat Auto Italia e ha produttività doppia perfino rispetto al più efficiente impianto italiano, che è quello di Melfi.



Qualche sparuta cronaca dalla Polonia – si sa che mandare in giro gli inviati speciali è diventato un lusso che la ex grande informazione si concede sempre meno – rivela però che proprio nello stabilimento di Tychy il clima sindacale è molto teso, perché nessuno della Fiat si è degnato di spiegare alle maestranze locali cosa sarà di loro nell’eventualità che la Nuova Panda venga davvero prodotta in Italia, e che quindi sia Pomigliano ad assorbire i 700 milioni di investimenti previsti.

Dicono i sindacalisti polacchi di aver avuto assicurazioni circa la conferma dei livelli occupazionali, ma molto generiche e imprecise. Parole di cui insomma non si fidano. E del resto, vista la straordinaria produttività, vista l’alta qualità di questa produzione – che Marchionne si è più volte premurato di sottolineare – una domanda sorge spontanea: ma perché mai la Fiat si è incaponita in questa battaglia sindacale e di principio a Pomigliano anziché continuare tranquillamente a puntare su Tychy? Perché rischiare lo scontro sociale e comunque l’incertezza industriale nello stabilimento degli assenteisti napoletani invece di dare fiducia a chi l’ha così ben meritata?



Francamente è difficile capirlo. A sentire Marchionne, ci sarebbe in gioco una specie di sfida patriottica sull’italianità industriale. Il che, detto da un manager che è più canadese che italiano per vita vissuta, impostazione manageriale e gusti – e che oltretutto, prudentemente, abita in Svizzera – sinceramente fa un po’ specie. E poi, che strano modo di declinare il patriottismo: oggi chiudo di netto Termini Imerese e domani faccio fuoco e fiamme per rilanciare Pomigliano? Forse che a Termini sono meno italiani che in Campania?

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Allora, poiché a pensare male si fa forse peccato – come diceva Giulio Andreotti – ma spesso s’indovina, sorge il sospetto che in realtà le idilliache condizioni di produttività della Polonia fossero in procinto di diventare un po’ meno idilliache e che gli “schiavi polacchi” – come li definisce a mezza bocca qualche oltranzista della Fiom – stessero iniziando a rivendicare turni meno sfiancanti e remunerazioni migliori.

 

Di qui l’accordo della Fiat col governo serbo, per aprire una fabbrica laggiù; e la decisione di tentare anche un rilancio sull’Italia, dove in definitiva le macchine sanno farle bene, se è vero che i modelli prodotti a Pomigliano avranno un costo unitario troppo alto a causa delle inefficienze e degli assenteismi, ma vivaddio viaggiano come schegge.

 

Insomma, il “nuovo Marchionne” che non abbraccia più Epifani, non si atteggia più a socialdemocratico ma fa l’efficientista-produttivista senza se e senza ma… ebbene questo nuovo capo che la Fiat si trova oggi al vertice, probabilmente ha le sue ragioni per gestire il quadrante globale della sua industria globale – divenuta davvero tale soltanto dopo l’acquisizione del controllo della Chrysler – in modo da ottimizzare sempre al meglio costi di produzione e “pace sindacale”, evitando di soggiacere a qualsiasi ricatto e giocando ai quattro cantoni contro costi di produzione e rivendicazioni sindacali.

 

Certo, lui conosce come pochi la ferrea legge della globalizzazione, quella stessa che, come diceva ieri Eugenio Scalfari su La Repubblica, “è un dato di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare”. E allora s’accomodi: “polacchizzi” Pomigliano, e ringraziamolo, comunque, per aver confermato quei cinquemila posti.

 

C’è però da sperare che – mentre la Fiat declina la sua filosofia pratica della globalizzazione – prenda forza, nel mondo, quel movimento politico corale di cui forse si intravedono i primi segnali in campo bancario e finanziario, un movimento politico che intervenga a riequilibrare gradatamente ma decisamente gli effetti perversi della globalizzazione, che è stata finora una globalizzazione al ribasso, un fenomeno per cui anziché portare gli operai polacchi alle condizioni di lavoro dei loro colleghi italiani o “occidentali”, si stanno abbassando le condizioni di lavoro occidentali agli standard cinesi.

 

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La politica che nel mondo sta concordando sull’opportunità di far pagare carissimo alle imprese il conto delle loro interessate negligenze, con il caso BP; la politica che vuol far pagare alle banche il prezzo delle loro speculazioni; la politica che sostiene le proteste degli operai cinesi quando rivendicano salari che non siano più “da fame”, ecco: è forse questa la politica che dovrebbe cambiare la metafora di Marchionne e ricordare a lui come a tutti i top-manager del mondo che se il loro compito è guardare ai profitti delle loro imprese e ai dividendi dei loro padroni (pardon: azionisti, si dice azionisti), il compito degli Stati è guardare agli interessi generali, e bandire lo sfruttamento ovunque alligni: in Cina, in Polonia, e perfino a Pomigliano.

 

Perché è vero che viviamo “dopo Cristo”, e per fortuna. Ma Cristo non si è fermato a Eboli. Che comunque, è a Sud di Pomigliano.