Il vertice G20 di Toronto, nel prossimo fine settimana, sarà dedicato alla ricerca di un punto di equilibrio fra le tre aree monetarie/economiche principali del pianeta: Cina, America ed Eurozona.

La prima basa la sua crescita sulle esportazioni facilitate da un cambio sottovalutato dello yuan, la seconda sta cercando di accelerare la ripresa attraverso la svalutazione competitiva del dollaro e la terza subisce una crisi di fiducia sulla sua capacità di ripagare i debiti che ha fatto scendere il cambio dell’euro, aumentandone la competitività dell’export, ma riducendo quella degli altri due in relazione al mercato europeo (che assorbe un quarto dell’intero export di Pechino).



In questa situazione chi rischia di più è l’America che potrebbe ricadere in recessione – e Obama che non sarebbe rieletto nel 2012 se ciò accadesse – sia per minori esportazioni, sia per eccesso di importazioni che ne aumenterebbero il deficit commerciale e ridurrebbero la competitività delle produzioni nazionali.



Con la complicazione sistemica che senza crescita sufficiente l’indebitamento statunitense corrente risulterebbe insostenibile e il mercato diventerebbe sospettoso sia sui titoli di debito americani sia sul dollaro, devalorizzandoli come ha fatto nei mesi scorsi con quelli europei e con l’euro.

Ciò spiega perché Obama nelle settimane scorse sia intervento pesantemente su Merkel affinché limitasse la caduta dell’euro e allo stesso tempo non esagerasse con il rigore che soffoca la crescita interna, e conseguentemente l’assorbimento dell’export altrui, nonché sulla Cina affinché rivalutasse lo yuan. Sarà ottenibile questo punto di equilibrio definito dall’interesse statunitense?



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I tre i leader globali, America, Cina e Germania, hanno interesse a limitare gli squilibri che, se incontrollati, porterebbero al caos catastrofico per tutti, ma hanno dei vincoli interni che non permettono un pieno riequilibrio. La Cina ha accettato di lasciar fluttuare il cambio dello yuan sganciandolo dal rapporto fisso con il dollaro. Ciò significa, in apparenza, che il valore di cambio sarà deciso dal mercato.

 

Ma non ci sarà una rapida rivalutazione della moneta cinese – che rimane sottovalutata di almeno un 25% – perché non è convertibile e quindi resta sotto il controllo politico. Ci sarà una piccola rivalutazione, sufficiente a dimostrare che Pechino collabora, ma non sostanziale. Il modello cinese, infatti, basa la sua crescita sull’export, oltre che sugli investimenti esteri diretti, e non ha ancora un mercato interno così forte da poter ridurre la dipendenza dall’export stesso.

 

Il vero riequilibrio globale, infatti, avverrebbe se la Cina usasse i profitti delle esportazioni per aumentare i redditi dei lavoratori e dare loro un welfare invece che metterli entro il proprio Fondo sovrano per conquistare posizioni di potere nel mondo. Anche per evitare che tale tema diventi oggetto di discussione Pechino ha preferito il danno minore, cioè la lieve rivalutazione dello yuan.

 

La Germania ha messo in priorità il rigore, definendo nuovi criteri per l’Eurozona, per evitare che salti l’euro. Ma non può soddisfare la richiesta di più crescita interna da parte di Obama perché ciò implicherebbe liberalizzare il sistema suscitando la reazione violenta delle forze sociali protezioniste.

 

In sintesi, l’Eurozona crescerà poco, ma non svaluterà l’euro oltre misura. La Cina non modificherà la sua aggressività esportativa, ma la ridurrà un pochino. Vedremo se questo riequilibrio globale solo minimo potrà mantenere l’America in crescita o non basterà.

 

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