La Banca Centrale Europea è un’istituzione straordinaria: riesce a mascherare la verità anche quando questa è palese e chiara come la luce del sole. Ma anche gli affabulatori migliori, alla fine, inciampano. O, in questo caso, sono costretti a passare dalle bugie alle mezze verità. Ammissioni, in questo caso.

Nell’ultimo bollettino mensile, infatti, la Bce è stata costretta ad ammettere ai mercati che il suo “systemic risk indicator”, un indicatore che si basa sui derivati Euribor e sullo stress sul mercato degli swaps EONIA, ha superato il livello toccato nel settembre 2008, i giorni del crollo di Lehman Brothers. «La probabilità di un default simultaneo di due o più grandi e complessi gruppi bancari dell’eurozona è cresciuta molto in fretta», questa la realtà certificata nero su bianco dal bollettino ufficiale di Francoforte. Evviva, alla faccia della ripresa dietro l’angolo e delle banche ben capitalizzate.



Un’ammissione, ammetterete, sconvolgente. Quali sono i due o più «grandi e complessi gruppi bancari» sull’orlo del collasso? Silenzio totale, ovviamente. Forse – e speriamo vada davvero così – dovremo aspettare fino a fine luglio, quando verranno resi noti i risultati degli stress tests imposti dall’Ue, una decisione che il numero uno di Deutsche Bank, Josef Ackermann, ha definito «molto, molto pericolosa». Perché mai la verità e la trasparenza dovrebbero essere pericolose? Lo sapete benissimo da soli.



Se a questo uniamo il completo fallimento del piano monstre dell’Ue e della sua speranza di calmare i mercati in fibrillazione per la crisi del debito, capirete da soli perché la scorsa settimana l’oro abbia toccato il suo massimo di tutti i tempi a 1.258 dollari l’oncia. Il World Gold Council venerdì scorso ha reso noto che Russia, Filippine, Kazakistan e Venezuela hanno comprato pesantemente oro mentre le autorità dell’Arabia Saudita hanno riportato le riserve a 323 milioni di tonnellate da 143 milioni.

Qui non ci troviamo di fronte alla classica corsa al bene rifugio: l’oro sta reclamando il suo ruolo di benchmark monetario globale. Questo rally aureo più che ricordare l’era Nixon-Carter, ci riporta direttamente agli anni Trenta. E l’America ha paura: la massa monetaria M3 si è contratta negli ultimi tre mesi a un tasso annuale pari al 7,6%, mentre il rendimento di Treasury notes a due anni è allo 0,71%: segnali di un’economia che rischia, seriamente, la distruzione a causa del debito.



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L’ECRI, indice principale dell’economia Usa, è crollato a livelli che non si conoscevano da mezzo secolo, toccando un minimo da quarantacinque settimane. Siamo a quota -5,70, il livello toccato alla fine del 2007 prima che Wall Street precipitasse nella crisi portando con sé tutto il mondo: l’America è ufficialmente in recessione, ma non ditelo a Treasury e Fed. I quali, poveretti, dopo aver gioito per pochi istanti, ora devo fare i conti con la realtà: l’annunciata rivalutazione dello yuan cinese sarà, per bocca delle autorità di Pechino, «molto graduale». E per il guru Nouriel Roubini, questa mossa potrebbe paradossalmente danneggiare e non aiutare il dollaro e quindi l’economia statunitense.

 

Ma, come potete immaginare da soli, se l’America piange, l’Europa non ha proprio nulla di cui sorridere. La scorsa settimana, per non vedere andare deserta l’asta dei propri titoli di Stato, la Spagna ha dovuto pagare uno spread record di 220 punti base rispetto al Bund tedesco, più o meno quanto era costretta a pagare la Grecia in marzo. Un dirigente della Banca centrale ha dovuto ammettere di fronte a una commissione parlamentare che le aziende spagnole sono staste completamente tagliate fuori dal mercato di capitale almeno da Pasqua: Stato, regioni, banche e aziende, tutti insieme, hanno creato debiti estero per 1,5 trilioni di euro, il 146% del Pil, 600 miliardi dei quali da ripagare entro la fine di quest’anno. Auguri Zapatero, ne hai bisogno.

 

Per Fitch Ratings «occorrerà l’acquisto di centinaia di miliardi di bond da parte della Bce per evitare un’escalation della crisi». Ma visto che il capo della Bundesbank – e futuro capo proprio della Bce -, Alex Weber, ha definito la prima tranche di acquisto di bond da parte di Francoforte «una minaccia alla stabilità», appare chiaro che la Germania, dopo aver dovuto ingoiare la pubblicazione degli stress tests bancari, combatterà con le unghie e con i denti per evitare quello che appare come una colossale operazione di quantitative easing.

 

Inoltre, la politica di tagli salariali e alla spesa pubblica imposta da metà degli Stati europei ai propri cittadini sta facendo ingolosire i mercati: una scelta simile, infatti, rischia di portare con sé una pericolosa contrazione del gettito fiscale e il rischio di una spirale debito-deflazione, qualcosa molto simile a quanto accaduto negli anni Trenta: peccato che nessuno abbia imparato la lezione che quegli anni hanno cercato di insegnarci.

 

Grazie al piano imposto alla Grecia da Ue e Fmi, il debito pubblico ellenico crescerà dal 120 al 150% del Pil: per il ministro delle Finanze russo, Alexei Kudrin, «un mini-default della Grecia ormai è divenuto inevitabile». E di fronte a una situazione simile cosa fa l’Europa? Propone idiozie e, come se questo non bastasse, unisce al danno anche la beffa della “litigata” postuma.

 

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Come definire altrimenti il botta e risposta tra il governo tedesco e il premier italiano Silvio Berlusconi, oggetto del contendere la proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie fatta propria dal Consiglio europeo: «Credo di aver reso un buon servizio al mio Paese e anche all’Europa con il veto sulla tassa sulle transazioni finanziarie», ha dichiarato il premier italiano nel corso di una telefonata durante il convegno dell’associazione Liberamente, definendo la stessa «ridicola».

 

A giudizio del premier questa imposizione «se fosse stata approntata solo dall’Unione Europea e non dagli altri grandi Paesi avrebbe spostato negli Usa e in altri Paesi» la mole delle transazioni finanziarie internazionali, principio di buon senso che Bruxelles stenta a capire. Immediata la replica di Berlino, secondo cui «le conclusioni sono state approvate da tutti i capi di Stato e di governo del Consiglio europeo», ovvero unanimità per la proposta e quindi voto a favore anche di Silvio Berlusconi a nome dell’Italia.

 

Ma nonostante la precisazione tedesca, a Palazzo Chigi si ribadisce che il presidente Silvio Berlusconi al vertice di Bruxelles di giovedì scorso ha davvero posto il veto dell’Italia alla proposta di una tassa europea sulle transazioni finanziarie: tanto è vero che il vertice ha previsto la possibilità di un’imposizione sulle banche e non sulle operazioni finanziarie.

 

La comune casa europea brucia e loro non solo litigano ma non sanno nemmeno dirci come stanno le cose, sempre pronti ad attaccarsi a cavilli procedurali e altri maneggi da Consiglio europeo: attenzione, tenetevi forte perché l’auto dell’Ue sta correndo a folle velocità contro un muro e l’autista è completamente ubriaco. Il prossimo G20 ci riserverà amare sorprese.

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